giovedì 28 ottobre 2010

In Plaza de Mayo, “Fuerza Cristina!”

Una disgrazia inaspettata e decisiva.
Questa frase può assumere il ruolo chiave per descrivere le sensazioni sia di militanti che di oppositori, il giorno dopo la scomparsa, a causa di un infarto, di Nestor Kirchner, ex presidente e marito dell’attuale presidente dell’Argentina, Cristina Fernandez.
Inaspettata perché quest’uomo di sessant’anni, se ne è andato all’improvviso, sconvolgendo il Paese proprio nel giorno in cui l’attenzione era tutta rivolta da un’altra parte. Ieri 27 ottobre, infatti, si stava svolgendo il grande censimento che, dopo 10 anni, rivelerà al Paese i nuovi dati demografici, di impiego e abitativi.
Decisiva dall’altro perché, per molti motivi, ci troviamo di fronte a una svolta importante in Argentina, un momento cruciale.
Prima di tutto perché in molti attribuiscono al lavoro di Nestor Kirchner quella che fu la rinascita dell’Argentina, che nel corso dei suoi quattro anni di governo vide ripartire la sua economia dopo la terribile crisi economica e sociale che schiacciò la nazione nel 2001 e nel 2002.
In secondo luogo perché, dopo la fine del suo mandato, di fatto, non aveva mai smesso di governare. Accompagnava costantemente la moglie Cristina Fernandez che sta attualmente dirigendo con grande carisma il Paese e con il quale formava una coppia indissolubile a livello politico oltre che famigliare.
Los K”, come li chiamavano in Argentina, non senza forti conflitti politici (a volte enormi, come la legge sui mezzi di comunicazione e il conflitto con i coltivatori di soia), sono stati il motore della politica argentina degli ultimi sette anni, in maniera così intensa da ricordare a momenti l’altra coppia che ha marchiato a vita la storia di questo paese: il generale Perón e la moglie Evita.
Nel corso del governo Kirchner, portatore di un'ideologia che puntava alla ricerca di una maggiore uguaglianza, alla lotta alle grandi corporazioni e alla redistribuzione della ricchezza nel Paese, è importante sottolineare l’importante decisione di aprire il processo all’ex dittatore Videla e ai suoi collaboratori, colpevoli della sparizione di 30.000 persone nel corso della dittatura militare dal 76 all’83.
In molti già si chiedono se Cristina Fernandez sarà in grado di dimostrare il suo grande valore politico e di governare il Paese senza il marito al suo fianco. Un Paese colpito da una delle inflazioni più forti nel mondo e che sta ancora attraversando un percorso di importante rinascita per tornare a raggiungere una stabilità perduta.
Quest’uomo ha lottato molto anche per rafforzare il dialogo e l’unione tra le nazioni latinoamericane, è stato uno dei fondatori dell’Unasur (Union de Naciones Suramericanas) della quale era da poco stato eletto segretario generale.
I presidenti latinoamericani, tra cui Evo Morales, Lula da Silva, Correa e molti altri stanno raggiungendo in questo momento l’Argentina per tributargli l’ultimo omaggio.
Un dato importantissimo è che, il prossimo ottobre 2011, vi saranno le elezioni presidenziali e Nestor Kirchner, virtualmente, si sarebbe ricandidato al ruolo di presidente per poter dare continuità al lavoro iniziato nel 2003.
Il panorama politico si fa quindi molto incerto e predisposto a grandi scontri per poter trovare un adeguato sostituto che possa continuare a governare il Paese.
Nel frattempo migliaia di persone piangono la scomparsa del loro leader, riempiendo la Plaza de Mayo di Buenos Aires, luogo “sacro” della storia argentina, giusto davanti al palazzo presidenziale, per salutarlo un’ultima volta, stringersi alla moglie, lasciare un fiore o un ricordo. Molti gridano “Fuerza Cristina!”

Nicola Bellin
ProgettoMondo Mlal Argentina

mercoledì 27 ottobre 2010

Brasile: speriamo che sia femmina

L’esito elettorale delle presidenziali brasiliane di domenica 3 ottobre (si votava oltre che per il presidente, anche per i 26 governatori degli stati, il rinnovo della Camera dei 513 deputati e due terzi degli 81 senatori), con il sorprendente raddoppio dei voti rispetto ai sondaggi(era data intorno al 10%) da parte di Marina Silva, l’altra donna candidata del Partito Verde, obbligherà Dilma Rousseff, la candidata del Partito dei Lavoratori, al ballottaggio del secondo turno di fine ottobre.
Il 47% dei voti non ha infatti permesso a Dilma, contrariamente alle previsioni, di accedere subito alla presidenza nonostante il forte sostegno di Lula. Avversario ancora Serra, l’italo-brasiliano leader del PSDB, al secondo posto con circa il 35-37% dei voti. Partito socialdemocratico solo di nome il PSDB, in realtà rappresentante di un centro-destra che da sempre ha goduto di enorme potere e illimitati privilegi, in un paese che nel corso dei secoli, dalla colonia ai governi militari, ha accentuato l'esclusione dei poveri da ogni diritto di cittadinanza, che fanno del Brasile il terzo paese al mondo per diseguaglianze economico-sociali. Diseguaglianze tutt’ora presenti, nonostante otto anni di rilevanti successi della lotta alla povertà del governo Lula.
Programmi impegnativi e tuttavia realizzati: “L’inclusione sociale” di milioni di afro brasiliani, soprattutto, attraverso il programma “fame zero” e la “bolsa famiglia”, il minimo di denaro tale da garantire almeno tre pasti al giorno, condizionato però all’obbligo per le famiglie di togliere i bambini dalla strada l’impegno provato della loro scolarizzazione. Tentativo concreto per sottrarre milioni di giovani alla disperata scelta di offrirsi come manovalanza al narco-traffico e alla criminalità organizzata.
Il riconoscimento da parte dell’importante rivista “Time” dell’aprile scorso, indicava Lula come “una delle persone più influenti del Mondo”, con Obama, il primo ministro giapponese, Yukio Atoyama e il direttore del Fondo Monetario, Strauss-Kahn, tra gli altri. Certo, anche per meriti per il lavoro di mediatore internazionale in vari conflitti, ma questo riconoscimento era il riconoscimento e frutto di questi otto anni di coraggiose e rilevanti realizzazioni di ordine sociali ed economiche interne al paese.
Marina Silva è però la sorpresa di queste elezioni. Data al 9-10% dei voti, sfiora il 20% impedendo la elezione di Dilma al primo turno. Fino a poco tempo fa ministra dell’ambiente del governo Lula e militante del PT, allieva di Chico Mendes, assassinato anni fa da killer per conto dei latifondisti per aver ostacolato la distruzione della foresta e promosso il “Patto dei Popoli della Foresta” - l’alleanza fra indigeni e sindacato dei “seringheiros”-, i lavoratori che estraggono caucciù dagli alberi della gomma. Le ragioni del dissenso di Marina con il PT e con Lula: poca sensibilità per la protezione dell’ambiente.
In effetti qualche fondato elemento di conflitto esisteva ed esiste. Far emergere un paese come il Brasile dalla secolare diseguaglianza e sottosviluppo, sfruttandone le risorse minerarie ed agricole, espandendo l’area dell’allevamento bovino, potenziando l’industria e l’esportazione con i programmi della PAC, il Programma di Accrescimento rapido, qualche problema di compatibilità con la difesa dell’ambiente l’aveva sollevato. Anche per questa ragione, i sondaggi che attribuivano a Lula oltre l’80% di gradimento degli elettori, era accompagnato da critiche da parte degli ambientalisti, fatte proprie da Marina, andandosene dal governo e aderendo al Partito Verde.
La possibilità che l’alto consenso al presidente Lula potesse essere trasferito su Dilma Rousseff non era tuttavia del tutto infondato. Ma il creduto facile automatismo del trasferimento elettorale del consenso personale del presidente uscente al successore, si è invece dimostrato difficile. Come del resto si era dimostrato tale nella recente esperienza delle presidenziali cilene; l’altrettanto alto consenso alla “Coalizione” della presidente Bachelet, che governava da vent’anni il Cile del dopo Pinochet, non stato sufficiente per il successore indicato, Frey, sconfitto dal conservatore Pignera.
Omero Ciai , inviato di “Repubblica”, nella sua corrispondenza da San Paolo di martedì 5 ottobre, titolava il suo articolo: “Gli evangelici fermano Dilma l’ex guerrigliera punita per il suo si all’aborto. La candidata di Lula costretta al ballottaggio”.
Credo ci siano altri fattori, forse ben più decisivi ad aver impedito la elezione di Dilma al primo turno. Intanto perché donna. La sfida era coraggiosa, forse temeraria, ma non facile. Il Brasile è un paese non meno machista dell’Italia, ed è anche il paese che, pur con l’80% di gradimento a Lula, questo gradimento non si è mai trasformato in maggioranza parlamentare.
Il PT non ha infatti mai avuto oltre un 20-25% di seggi alla Camera e al Senato. E domenica 3 ottobre, i deputati petisti passati da 83 a 88, confrontati ai 513 deputati della Camera, rimangono sempre pochi e neanche minimamente rapportati all’elevato consenso personale a Lula!
Già alla prima elezione, del 2002, oltre un anno dopo, al novembre 2003, la coalizione di governo del PT con Psb, il partito socialista brasiliano e il PCdB, un piccolo partito della sinistra, era ancora in minoranza, non raggiungendo che il 48% dei seggi nei due rami del Parlamento. E Lula dovette attendere l’accordo con il PMDB – partito di centro e a maggioranza relativa - per potere avviare l’azione di governo; accordo che l’obbligò a concedere alcuni ministeri, per aver i voti sufficienti per portare avanti il programma di governo. Ma non tutto il programma; la riforma agraria, per esempio, non ebbe strada libera e questo deluse l’attesa dei senza terra, spingendoli a riprendere frequenti e massicce occupazioni delle terre (quali similitudini del sud italiano del dopoguerra!)
Vedremo come andrà il ballottaggio di fine ottobre. Su Dilma dovrebbero convergere una parte dei voti andati a Marina Silva. Solo una parte, ma sufficienti per la sua elezione a presidente. I vari dirigenti del PV hanno affermato che voteranno non solo per Dilma, ma anche per Serra. Opportunismo dei verdi, che tengono i piedi in due staffe, specie a San paolo, in parte l’arroganza di Dilma(di cui viene spesso accusata), il si all’aborto, possono alienarle voti. Ma il risultato non dovrebbe questa volta mancare alla presidente donna di un nuovo Brasile, un Brasile trasformato dagli otto anni di governo del tornitore meccanico, il “Seppia”, Lula, com’era chiamato da sua madre.

Alberto Tridente
ex sindacalista Metalmeccanici Fim/Cisl settore internazionale
amico di ProgettoMondo Mlal Brasile

martedì 26 ottobre 2010

Cooperazione e migrazione: la parola ai numeri

A parlare sono i dati. Su quella che è “la realtà” della migrazione in Italia (“e non il problema”, ci tiene a precisare il direttore della Caritas diocesana di Verona monsignor Giuliano Ceschi in occasione della presentazione del nuovo dossier sulla Migrazione Caritas/Migrantes che si è svolta oggi nella prefettura di Verona) i numeri parlano chiaro: negli ultimi vent’anni la popolazione immigrata in Italia è cresciuta di quasi 10 volte, arrivando alla soglia dei 5 milioni. E tra chi ha lasciato la propria terra per raggiungere l’Italia, oltre 430mila provengono dal Marocco (pari al 10 per cento del totale): lo stesso Paese in cui ProgettoMondo Mlal ha realizzato già due programmi per affrontare in loco il tema della migrazione, e contribuire a renderla il più possibile consapevole e responsabile, oltre che favorire il rientro di chi vi torna ad investire: "Mai più da clandestino" e "Migrazione tutti in rete".

Un dato in crescita, quindi, quello di chi anno dopo anno raggiunge l’Italia per cercare un futuro migliore e con più soddisfazioni, che evidenzia l’importanza delle rimesse per lo sviluppo del proprio Paese d’origine. E non solo, visto che gli immigrati in Italia contribuiscono per l’11,1 per cento sulla produzione del Prodotto Interno Lordo e, con il pagamento di 7 miliardi e mezzo di euro di contributi previdenziali, hanno contribuito al risanamento del bilancio dell’Inps. Come dire, la “nostra” pensione iniziano a pagarla proprio “loro”: basti pensare che, il rapporto dei pensionati tra gli immigrati è di 1 a 30, rispetto a quelle di 1 a 4 riservato agli italiani.
A livello occupazionale poi, nonostante la maggior parte di loro svolga ancora lavori umili e spesso mal retribuiti, gli immigrati incidono per circa il 10 per cento sul totale dei lavoratori dipendenti e sono anche sempre più attivi nel lavoro autonomo e imprenditoriale dove, nonostante la crisi, riescono a creare nuove realtà aziendali. Sono circa 400mila gli stranieri tra titolari d’impresa, amministratori e soci di aziende, e ogni 30 imprenditori in Italia, uno è immigrato, con prevalenza dei marocchini, dediti al commercio.
Quello stesso commercio che ha riportato a Beni Mellal il marocchino da noi intervistato in occasione della consegna dei diplomi avvenuta lo scorso luglio alla fine del corso di formazione realizzato dal Cri, il Centro d’investimento regionale della regione di Tadla Azilal, nostro partner nel progetto “Migrazione, tutti in rete”. Marocchino che, con la crisi del Belpaese, ha deciso di tornare a investire nel suo paese d’origine, riscoprendone leggi e burocrazia grazie appunto al corso del Cri.



Nel dossier appena realizzato, Caritas Migrantes affronta anche le difficoltà del rapporto tra politiche migratorie e cooperazione allo sviluppo. Quella stessa cooperazione che ProgettoMondo Mlal ha avviato proprio in Marocco, non per fermare, ma piuttosto rendere consapevole e più strutturata la migrazione di chi, a tutti i costi, intende partire.
Una cooperazione che non intende quindi certo porsi come strumento per ridurre i flussi migratori, bensì come tramite di conoscenza di una realtà troppo poco conosciuta. Conoscere il territorio e lavorare con partner locali significa infatti poter dare una risposta a un quesito semplice ma fondamentale, specie per saper prevedere e affrontare il fenomeno: “chi sono le persone che vogliono partire?”.

Ufficio Comunicazione
ProgettoMondo Mlal
Chiara Bazzanella

Haiti: verso le elezioni, nella morsa del colera

La stampa internazionale è tornata a parlare di Haiti. Questa volta si tratta del colera che ha colpito Saint-Marc, una cittadina a due ore a nord di Port-au-Prince, nel dipartimento dell'Artibonite. Ancora una volta si parla di una nuova «piaga», di una «maledizione» che si è abbattuta sulla piccola isola caraibica. Parole estreme, che gli haitiani sono stanchi di sentire, che restituiscono l’immagine di un Paese senza scappatoia, in cui la situazione è insormontabile.
Eppure è così. La situazione del Paese è davvero grave, un'altra volta. E la nuova tragedia dimostra che l’isola è ben lontana dall’aver risolto i propri problemi, che c'è ancora molto lavoro da fare, sia da parte degli haitiani che dalla comunità internazionale, che deve continuare a porre un'attenzione costante e responsabile sul piccolo Paese centroamericano.
Il colera, che ad Haiti era sparito ormai da cent’anni, è riapparso in questi giorni, come conseguenza della cattiva qualità di acqua e igiene. E in meno d'una settimana, si contano già 253 morti e 3.115 ricoveri.
Così ora tutta l'attenzione è rivolta a quest’area, dove la popolazione è in preda all’ansia e alla paura di essere colpita da un’infezione che in poche ore può portare alla morte. Si tratta infatti del tipo O1 della malattia: quello più pericoloso.
Il livello di denutrizione e di debolezza della popolazione è preoccupante; le cattive condizioni igieniche dei campi - in seguito al terremoto del 12 gennaio scorso e alle tempeste delle ultime settimane (la stagione degli uragani dovrebbe terminare tra un mese) – rendono l’intera area fortemente in pericolo.
I centri di salute, sommersi da pazienti, cercano di dotarsi del maggior numero di soluzioni saline e di sensibilizzare, assicurare l'igiene nei centri e gestire i corpi delle vittime.
La capitale, per ora e per fortuna, non è ancora stata colpita dalla malattia che pare confinata geograficamente alla zona rurale di Sain-Marc.
Anche Léogane e Fonds-Verrettes, dove stiamo lavorando con i nostri progetti (Scuole per la Rinascita, e Viva Haiti), si trovano più a sud della capitale, e per ora sono stati risparmiati dal contagio. Ma l'Organizzazione mondiale della salute non si pronuncia ancora sulla fine dell'epidemia: è troppo presto per prevedere come evolverà la situazione.
Intanto i mezzi di comunicazione invitano la popolazione dell’isola ad applicare le misure preventive adeguate.
È così anche sul confine con la Repubblica Domenicana, nella città mercato di Dajabón, dove al momento – come ci fanno sapere i nostri partner di Solidarid Fronteriza - il transito di persone e veicoli è possibile solo in un senso: dalla Repubblica Domenicana ad Haiti. E ancora una volta non viceversa.
E per chi va a Wanament (la città haitiana al confine con la repubblica domenicana in cui come ProgettoMondo Mlal abbiamo un’iniziativa) i controlli non mancano: passa solo chi è in possesso dei propri documenti e si sottopone a un iter sanitario rigido. Prima di tutto il lavaggio accurato delle mani, e quindi controlli medici che certifichino la non presenza dei sintomi del colera, con il rilascio di un documento sigillato dalla sanità pubblica.
Proprio adesso che, seppur lentamente e a fatica, le cose poco a poco stavano cominciando a ritrovare un proprio ritmo. Un ritmo nuovo, diverso da quello di prima il terremoto... ma era comunque già qualcosa.
Le gente ha iniziato a pensare alla ripresa dell'anno scolastico. Ma anche alle elezioni legislative e presidenziale che si terranno il prossimo 28 novembre. Elezioni che, nelle prossime settimane, sicuramente influiranno sempre di più sul corso delle cose, sempre che la nuova “maledizione” che si è abbattuta sul Paese venga sradicata presto e risparmi altre vittime e preoccupazioni.

Nel frattempo, proprio in queste ore è in Italia ospite di ProgettoMondo Mlal Jean Ronel Vaillant, ex sindaco di Léogane e già coordinatore delle nostre attività nel Programma Piatto di sicurezza ad Haiti, perché invitato a partecipare fino al 28 ottobre a Slow Food a Torino nell’ambito del Programma "Orto in condotta di Torino", grazie al quale si puntano a raccogliere fondi per il ripristino delle coltivazioni distrutte dal terremoto del 12 gennaio scorso.
Accompagnato dal responsabile ProgettoMondo Mlal Piemonte, Ivana Borsotto e da Marco Bello del Cisv, nostro partner, Vailant incontrerà nelle prossime ore anche un rappresentante della Regione Piemonte, un consigliere regionale del Pd, un consorzio di Ong piemontesi, un rappresentante dell'associazione Haiti Italia di Torino. Per maggiori informazioni: progettomondomlalpiemonte@mlal.org

Nicolas Derenne,
ProgettoMondo Mlal Haiti

lunedì 25 ottobre 2010

Dal Burkina Faso per un reportage in Italia

Sono arrivati dal Burkina Faso e, subito, la prima sgradevole accoglienza. Poggiata la cinepresa a terra per pagare il conto in un bar nei pressi della loro Ambasciata a Roma, se la sono visti portare via praticamente sotto il naso. In Italia rubano? Sì, gli è stato gentilmente(questa volta) risposto: rubano.
Poi l’equipe di cineoperatori e giornalisti burkinabè è salita al nord, nella provincia di Vicenza, per incontrare le comunità dei loro connazionali che qui risiedono e lavorano da oltre un decennio. Come ci hanno raccontato loro stessi nel breve incontro avuto sabato pomeriggio con i rappresentanti di ProgettoMondo Mlal, la vicepresidente Ivana Borsotto e il direttore Valentino Piazza, sono ben 7.800 gli immigrati burkinabè che, dal 1990 (data di inizio del flusso di immigrazione in questa area) a oggi, hanno trovato posto nelle tante concerie di Arzignano e nelle piccole aziende metallurgiche di Altavilla e Creazzo. Ma si calcola che, nel mondo, la comunità burkinabè abbia superato ormai i 2 milioni di persone. “Quella italiana – ci spiega il rappresentante dell’associazione burkinabè di Vicenza- è comunque di gran lunga la più numerosa. E sapete perché? – tiene a farci sapere Aziz Banse: “… perché il burkinabè preferisce i Paesi dove viene richiesto il lavoro di fatica. Non come in Francia dove ci si riduce tutti a fare i bellimbusti…”.
Se è vero allora che l’Italia soddisfa maggiormente questo tipo di domanda, c’è da dire che i burkinabè vivono ormai in più di 50 altri Paesi del mondo. Praticamente sono dappertutto.
E conservare buoni rapporti con tutti è appunto il compito dell’equipe sbarcata in Italia in questi giorni: incontrare una ad una le tante comunità sparse nel mondo per raccoglierne aspettative, esigenze, ma verosimilmente per misurarne anche le potenzialità in termini di aiuto o collaborazione con il proprio Paese.
“In Burkina, soltanto in un mese, ci sono state 4 alluvioni e ogni volta abbiamo raccolto e mandato container di aiuti dall’Italia”. Come a dire che in Burkina hanno cominciato a prendere molto sul serio i loro connazionali emigrati dieci anni fa. Tanto più che oggi –racconta ancora Aziz- di fronte alla crisi economica che è globale sono in molti a cominciare a pensare a un rientro”. Ed ecco spiegato un altro snodo significativo nell’agenda di incontri istituzionali (nella delegazione anche un addetto stampa del gabinetto presidenziale) e documentaristici: come sarebbero disposti ad aiutare il proprio Paese una volta rientrati a casa gli emigrati? E cosa il governo burkinabè potrebbe fare per aiutare e valorizzare questo rientro a casa?
A fare le domande, e documentare la realtà burkinabè in Italia, una troupe del canale Arc en Ciel di Radio Televisione Nationale du Burkina (RTB). Anche se, privati della cinepresa professionale, apparivano forse un po’ meno baldanzosi nelle interviste, i giornalisti hanno voluto comunque raccogliere le testimonianze dei nostri operatori e documentare l’impegno di ProgettoMondo Mlal nel loro Paese.
Una presenza quella di ProgettoMondo Mlal che –come ha spiegato loro il direttore di ProgettoMondo Mlal Valentino Piazza- conta ormai su 5 anni di preziosa collaborazione con il Ministero di Salute del Paese, in ben 16 distinti Centri di Salute pubblica delle regione di Hauts Bassins e Cascades.
Così la vicepresidente Ivana Borsotto ha sottolineato il lavoro svolto in questi anni, con risultati notevolmente importanti, nell’ambito della salute materna e della lotta alla denutrizione. Il tutto valorizzato da un metodo di indagine e di cura che coinvolge in prima persona la persona e la comunità stessa (epiedemiologia comunitaria), responsabilizzando e rendendo di fatto più consapevoli gli stessi malati, e contribuendo così a rafforzare le risposte sanitarie che culturalmente sono già presenti e riconosciute sul territorio.
Ma di salute ed alimentazione in Burkina Faso si parlerà ancora sul nostro territorio nazionale. Proprio a Vicenza l’amministrazione comunale, con la collaborazione di ProgettoMondo Mlal, sta realizzando un programma di iniziative nelle scuole per mettere in contatto i ragazzi dei due Paesi e stimolarli ad affrontare temi che sono di tutti. Al Nord come al Sud del mondo. Insieme contribuiranno concretamente alla realizzazione di alcuni microprogetti di sviluppo nelle aree più svantaggiate del paese africano.

ufficio Comunicazione
ProgettoMondo Mlal
Lucia Filippi

venerdì 22 ottobre 2010

L'educazione che sfida il tabù della migrazione

Un territorio non facile, a tratti ostile e di certo poco preparato ad accettare di affrontare il tema della migrazione clandestina. A Khourigba, città da cui provengono la maggior parte dei marocchini in Italia (specie quelli diretti in Piemonte), parlare dei rischi della migrazione è ancora un tabù. E farlo con progetti educativi non canonici è ancora più complesso: si tratta di “sfidare” un sistema che prevede ancora moduli scolastici antiquati, basati su una rigida disciplina nelle classi che ricorre ancora a provvedimenti coercitivi e persino punizioni corporali. Eppure, con il programma recentemente concluso “Migrazione, tutti in rete”, ProgettoMondo Mlal è riuscito a introdurre nelle scuole un approccio alla formazione diverso, che poggia su delle sperimentazioni simili a quelle occidentali, che mettono al centro la corporeità e le dinamiche di gruppo (come risulta evidente dal breve video proposto qui sotto) e su cui studenti e insegnanti sono stati portati a riflettere. Avendo comunque sempre presente come punto di partenza una lettura del contesto sociale.
Khourigba è una città giovane, nata intorno agli anni '20 e popolata da berberi in arrivo dalle montagne per farsi minatori nell'industria dei fosfati. Una ricchezza naturale che ormai sta lentamente esaurendosi, tanto che le montagne artificiali, che si sono andate creando con gli scavi, iniziano a essere obiettivo di rimboschimento. Quel che rimane è una città in declino, fantasma, che vive delle rimesse di chi è emigrato all'estero, dove la gente ha i denti macchiati di giallo a causa dell'acqua contaminata dai fosfati, e con un livello culturale davvero molto basso.
Da qui la sfida di ProgettoMondo Mlal: organizzare un'equipe locale per coinvolgere i giovani della zona nei nuovi progetti di formazione avviati attorno alle mediateche.
La visibilità dei risultati – precisa la capoprogetto di “Migrazione tutti in rete” Teresa Leone - è stata tangibile, specie rispetto alle motivazioni”.
Gli spazi pubblici della città solitamente sono luoghi senza vita, abbandonati a se stessi, in cui la possibilità di esprimersi è davvero ridotta. Eppure il bacino d'utenza di certo non manca: è bastato stimolare con un approccio educativo diverso, e si è subito fatto avanti.
È vero che gli oltre 600 questionari di valutazione proposti hanno vista confermato, nel 90% delle risposte, il desiderio forte di partire. Ma è anche vero che l'obiettivo del progetto non è mai stato quello di fermare questi giovani (fermarli è impossibile!), ma piuttosto di fornire loro degli strumenti indispensabili per avere la consapevolezza del futuro a cui andranno incontro partendo.
Gli stessi strumenti che, come una sorta di effetto boomerang, hanno reso i giovani marocchini ancora più certi della miseria in cui vivono, dell'impossibilità di sbocchi professionali e studi approfonditi nel loro Paese.
Le mediateche aperte con il nostro programma (non solo a Khourigba ma anche Beni Mellal, dove il lavoro sulla migrazione è ormai accettato con serenità) continueranno ad essere utilizzate per la formazione di quadri e responsabili del sistema marocchino, attraverso progetti educativi parascolastici simili a quelli sperimentati dalla nostra organizzazione. Una grande soddisfazione quindi, resa possibile anche dal coinvolgimento di circa 25 associazioni locali, che hanno partecipato a un percorso di rafforzamento della gestione interna: imparare ad avere accesso ai fondi, come leggere i bandi e come realizzare infine nuovi progetti.
Un processo non facile, specie alla luce del fatto che negli ultimi anni il governo locale ha aumentato esponenzialmente i fondi per le associazioni, generando una corsa scoordinata, e non sempre giustificata, alla creazione di un numero sproporzionato di associazioni.
Un processo che, una volta selezionate e indirizzate le realtà più strutturate e capaci, ha comunque permesso di raccogliere una serie di frutti. Non solo tramite le mediateche, ma anche nell'ottica della formazione di operatori adibiti ai servizi sociali, figure finora pressoché assenti nel Paese, dove chi soffre di patologie legate a traumi (come le famiglie delle vittime della migrazione, che si trovano magari a dover affrontare un lutto importante) viene ancora sedato o rinchiuso nei manicomi.
Introdurre un approccio psicosociale rappresenta quindi un'ulteriore sfida. Che ProgettoMondo Mlal, pur con una serie di difficoltà, ha accettato di fronteggiare con la formazione di 25 operatrici sul tema della violenza contro le donne che, peraltro, sono sempre più protagoniste in prima persona del fenomeno della migrazione. Sarà questo l’obiettivo del nuovo Progetto sulle donne in Marocco, approvato dall’Unione Europea, che prenderà il via proprio da qui: dall'apprendimento di nuove tecniche di gestione dei gruppi di auto mutuo aiuto.
Farlo in Marocco significa scontrarsi con una realtà in cui vige ancora un forte controllo sociale, ma anche contribuire allo sviluppo di un Paese la cui ricchezza interna e potenzialità di crescita non mancano.



http://www.youtube.com/watch?v=4qsWKy-Se6E

martedì 19 ottobre 2010

A Cordoba la scuola è in rivolta

Sono giorni intensi di marce e proteste nella cittá di Córdoba in Argentina. Da ormai una ventina di giorni, 20 scuole superiori della città sono state occupate dagli studenti e dai loro docenti che hanno innalzato scritte e striscioni per protestare contro la nuova legge regionale sull’educazione. L’accusa rivolta a chi ha scritto la legge è di non avere dato spazio alla loro partecipazione mentre la ideavano, e di essere rappresentanti delle corporazioni educative private che per questo lavorano contro l’educazione pubblica, gratuita e laica.
Da molto tempo, inoltre, i finanziamenti per l’istruzione pubblica sono estremamente ridotti, con conseguenze piuttosto pesanti per l’insegnamento che non dispone delle risorse necessarie per garantire qualità e, in alcuni casi, nemmeno la sicurezza considerando che molti degli edifici scolastici pubblici della città sono caratterizzati da seri problema di infrastruttura che li rendono obsoleti e pericolosi.
Qualche giorno fa gli studenti delle venti scuole occupate hanno scelto l’arteria stradale più vicina alla loro scuola e sono scesi in piazza con cori, striscioni e tamburi occupando e bloccando le strade per far sentire la loro voce. Con loro anche molti docenti e genitori che, stanchi dei salari bassi e delle scarse risorse dedicate all’istruzione che ne compromettono la qualità, hanno deciso di appoggiare la protesta studentesca sfidando i rettori e i presidi delle scuole.
I punti di vista sulla protesta e sulla sua metodologia sono però vari e diversi. Si trovano infatti anche molti studenti, genitori e docenti che pur protestando per far rispettare i propri diritti, si appellano alla democrazia condannando il metodo della protesta e accusando una minoranza di essere la causa della confusione creata in questi giorni.
Scenari particolari quindi, con scuole occupate da una parte degli studenti e chiuse con il catenaccio, e parte degli altri studenti fuori dalle stesse scuole a reclamare il diritto di entrare per poter continuare a studiare, proponendo altri metodi per negoziare soluzioni.
Il governatore della provincia di Córdoba, Schiaretti, cerca di spegnere la tensione, condannando la protesta e annunciando che, il 28 ottobre, sarà presentato il nuovo disegno di legge che verrá discusso solamente un mese dopo, garantendo il tempo quindi a tutte le parti di poter dare la propia opinione per poter modificare il contenuto.
Sono giornate intense, piene di suoni di tamburi e grida di giovani che lottano. E ognuno a suo modo riempie le strade di questa città con passione.

Nicola Bellin,
ProgettoMondo Mlal Argentina

venerdì 15 ottobre 2010

Giornata mondiale dell’alimentazione… e dell’autonomia alimentare

Sovranità alimentare, con il 16 ottobre se ne torna a parlare. E in occasione della giornata mondiale dell’alimentazione fissata appunto in questa data, ProgettoMondo Mlal ribadisce il suo impegno sul campo perché ogni Paese del mondo – e in particolare del sud del mondo – possa arrivare a una completa autonomia alimentare. Non si tratta solo di avere il cibo quindi, ma di avere i presupposti e le possibilità di auto-produrre le derrate alla base di quella sana e corretta alimentazione di cui nessuno dovrebbe essere privo.
Per parlare di lotta alla fame nel mondo, la nostra organizzazione ha di recente dato alla stampa “Un giorno con Melita”, fotoracconto narrato in prima persona da una ragazzina, Melita, che vive in un paesino del Guatemala dove addirittura il 72% dei bambini non mangia abbastanza. Sua mamma Roselia, che ha partecipato al nostro progetto “La forza dell’acqua”, ha ormai capito l’importanza di nutrire correttamente la sua famiglia, con frutta e verdura fresca coltivata nella propria terra. Un insegnamento che ora tramanda ai suoi figli e che la piccola Melita spiega bene nel libricino destinato ai suoi coetanei italiani. È chiara quindi la differenza tra una merendina conservata e un frutto fresco di stagione, e la fortuna di chi ha la possibilità di scegliere cosa coltivare e cosa mangiare.
Melita ci insegna a fare i conti con il diritto al cibo e alla sopravvivenza anche a nome di altri 200 milioni di bambini. Tanti sono infatti i bambini che ad oggi soffrono ancora la fame, oppure mangiano poco e male, il che li espone a gravi malattie o alla morte. Ogni anno muoiono ancora 13 milioni di bambini sotto i 5 anni.
È quanto accade in Paesi come il Burkina Faso, la Bolivia o Haiti, là dove ProgettoMondo Mlal porta avanti progetti di cooperazione allo sviluppo che hanno direttamente a che fare con la sopravvivenza di chi ci vive e che puntano a interventi che siano davvero in grado di cambiare la vita di intere comunità.
In Burkina, per esempio, la scommessa è quella di ridurre la malnutrizione dei bambini tra gli 0 e i 5 anni che vivono nella regione di Cascades, territorio tra i più colpiti dalla malnutrizione in tutto il Paese.
“Mamma” il nome del progetto, perché è proprio a partire da loro che prende il via il percorso di accompagnamento di educazione alimentare per la salute dei propri figli.
Anche in Bolivia, poi, l’attenzione va ai bambini, la cui denutrizione - per chi ha meno di 5 anni - è ancora al 26,5 %. Protagonisti dei cambiamenti interni alla produzione locale in questo caso sono però i piccoli agricoltori che, attraverso il progetto “Figli della miniera” nel dipartimento di Potosì, contribuiscono alla produzione di ortaggi che arricchiscano le razioni della merenda scolastica destinata ai bambini.
Con l’altro progetto avviato in Bolivia, “Vita campesina”, le attività arrivano a coinvolgere fino a settemila famiglie di agricoltori nelle zone rurali per formare leader locali nell’ottica di implementare filiere produttive e lanciare un marchio sociale nazionale che identifichi i prodotti.
È un po’ quanto accade anche ad Haiti. Qui, nonostante - e anche in nome - della catastrofe che si è abbattuta sul Paese il 12 gennaio scorso (e il conseguente progetto d’emergenza avviato all’indomani del terremoto, “Scuole per la rinascita”), la nostra organizzazione sta portando a conclusione il progetto “Piatto di sicurezza”, che punta a modificare le abitudini alimentari della gente. Anche qui l’insegnamento di nuove tecniche di coltivazione ruota intorno alla formazione e responsabilizzazione dei piccoli produttori locali perché i cibi vengano trasformati e quindi messi in commercio.
Aiutare quindi sì, ma sempre nell’ottica del rispetto e della cooperazione che caratterizzano l’agire delle organizzazioni che, come la nostra, sono convinte che lo sviluppo di un Paese prenda il via prima di tutto dalle sue stesse risorse interne, che vanno stimolate ma non per questo stravolte.

Chiara Bazzanella
Ufficio Comunicazione ProgettoMondo Mlal

giovedì 14 ottobre 2010

Il Paraguay dalla parte dei giovani

Raccogliere informazioni valide e concrete sui giovani del Paese, in relazione ai loro diritti, valori e percezioni, in modo da conoscerne meglio le condizioni di vita, le dinamiche di partecipazione e individuarne le necessità primarie.
Questo l’obiettivo con cui il Vice Ministro della Gioventù in Paraguay ha realizzato la prima indagine nazionale della gioventù, per arrivare alla progettazione di politiche pubbliche che abbiamo come fine quello di migliorare le condizioni di vita e di coesione sociale dei più giovani. Un lavoro che segna una pietra miliare nella storia del governo: è la prima volta infatti che il Paese ascolta direttamente i propri giovani per renderli protagonisti della realtà in cui vivono anche tramite politiche nazionali specifiche che vadano incontro alle loro necessità.
Tra queste senza dubbio anche quella di conoscere il proprio passato e superarlo, per un vero processo di crescita democratica del Paese.
ProgettoMondo Mlal è in Paraguay proprio per questo, per promuovere nelle scuole dei dipartimenti Central e Cordillera - e in collaborazione con la Casa de la Juventud - il lavoro svolto dalla Commissione per la Verità e Giustizia.
Quasi vent’anni dopo il rovesciamento del regime dittatoriale, è infatti sempre più evidente la mancanza di memoria storica e il senso generale di ignoranza su ciò che è successo in quegli anni tragici e che cosa ha rappresentato per il Paraguay di ieri, ma soprattutto che cosa questo rappresenta per il Paraguay di oggi. Ciò risulta più evidente nelle giovani generazioni, figlie del periodo democratico ma caratterizzate da un’elevata percentuale di astensionismo dai processi elettorali e di allontanamento dalla politica e dalla partecipazione democratica.
E proprio per promuovere i Diritti Umani e di Cittadinanza dei giovani del Mercosur e Cile, la nostra organizzazione di recente ha anche realizzato il progetto conclusosi lo scorso anno “Per una regione di nuovi cittadini”, che ha avuto come obiettivo quello di coinvolgere i settori giovanili maggiormente vulnerabili di Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Cile, prendendo in considerazione coloro che vengono identificati come soggetti principali di azioni di lotta contro l’esclusione sociale, la discriminazione e il disagio giovanile.

mercoledì 13 ottobre 2010

Diritti negati: nelle carceri boliviane è emergenza

Due giorni fa, l’11 ottobre, è iniziato lo sciopero della fame in tutte le carceri di La Paz e in alcune delle città della Bolivia: le carceri sono in stato d’emergenza. I detenuti rivendicano i loro diritti: pretendono che il cibo sia migliore e senza tranquillanti, che si assegnino medici e infermieri con farmaci a disposizione dei detenuti e assistenza medica notturna, che ci siano riparazioni nelle infrastrutture. I giovani chiedono che sia rispettata la legge 22-98, che prevede che gli adolescenti scontino la pena in un ambiente separato dagli adulti, le donne abbiano un adeguato livello di nutrizione e una buona assistenza ginecologica e i bambini non vivano più nelle carceri. Inoltre, secondo l’articolo 110 della Legge di Esecuzione Penale le persone che superano i 60 anni d’età devono scontare la loro pena agli arresti domiciliari il che, peraltro, risolverebbe parte del sovraffollamento.
Lo sciopero della fame nelle carceri “paralizza il commercio”: nessuno entra e nessuno esce. Non c’è commercio di droga né di alcol, i turisti non possono entrare e neanche i poliziotti.
E in tutto questo i giornali hanno aspettato ben 24 ore per dare la notizia. Ma come? Non è di tutti il diritto di far sentire la propria voce, insieme a quello di non essere discriminati?
Proprio in questo momento politico nel Paese c’è un forte dibattito su quello che si chiama la legge della discriminazione: chi discrimina può essere accusato. C’è uno sciopero dei giornalisti per quella che chiamano “la ley de la mordaza” nel senso che ai mezzi di comunicazione viene chiusa la bocca. Lo slogan più comune è: “sin libertad de expresión no hay democracia”.
In Bolivia i mass media battono il chiodo sulla discriminazione culturale senza considerare che in ogni istante della giornata c'è chi discrimina chi gli è accanto. La discriminazione sociale dello Stato si nota dalla mancanza dei diritti della persona: la maggior parte di queste categorie non è tutelata da diritti umani, primi fra tutti i detenuti e gli ex detenuti.

Il carcere di San Pedro a La Paz - dove ProgettoMondo Mlal sta realizzando il programma "Qalauma, giovani trasgressori" per reintegrare nella società adolescenti emarginati - ospita 1600 persone, anche se l’infrastruttura è stata progettata per accoglierne 400.
Sono 9 mila le persone detenute nelle carceri boliviane, rispetto ai 10 milioni che popolano il paese. Di queste, 8mila sono ancora in attesa di condanna. I detenuti pagano 200 pesos boliviani (circa 20 euro) nel momento in cui sono arrestati, pagano un affitto della cella di minimo 150 pesos boliviani (una persona vive dignitosamente con 10 pesos boliviani al giorno) e in carcere, persino lavarsi con l’acqua calda ha un costo: pari a 0.50 pesos. I detenuti ricevono un solo pasto al giorno: 3 volte alla settimana ricevono carne, i restanti 4 giorni mangiano zuppa di verdura. L’assistenza medica è poco costante, non ci sono farmaci nel carcere e nessuno li dona: i più fortunati hanno parenti o amici che comprano farmaci fuori dal carcere e, come se non bastasse, San Pedro è diventata l’attrazione turistica della città: i turisti pagano per entrare a visitare il carcere, per comprare economicamente i suoi “prodotti” e per dire “io ho visto un carcere in Bolivia” . Di fronte a tutto questo c’è da chiedersi dove siano i diritti umani. San Pedro è diventato l’attrazione di La Paz.... ma cosa resta ai detenuti? Sono visti come persone o come criminali psicopatici con personalità devianti? Che futuro ha una persona che è stata in San Pedro?

E tutto questo mentre, il 12 ottobre, nel mondo si festeggia la giornata dell’intercultura: anche in Bolivia, da quando c’è Evo Morales. Queste terre che godono di meraviglie terrestri inserite in tutti i microclimi possibili, accolgono le molteplici e differenti popolazioni: la cultura quechua dell’altopiano di Potosi, Oruro e Cochabamba, la cultura aymara dell’altopiano di La Paz, gli afroamericani della regione de los yungas, i “falsi europei” di Sorata, i boliviani “alla moda” di Santa Cruz, i campesinos delle zone rurali, i tropicali di Beni e Pando e tutti gli immigrati che vivono in Bolivia: brasiliani, argentini, capo verdiani, keniani, spagnoli, nord americani, messicani, portoriqueñi, equadoriani, inglesi, tedeschi, nord americani, canadesi, cinesi, francesi, cileni, colombiani, giapponesi e, gli immancabili, italiani.
La Bolivia sembra un paese omogeneo ma in realtà nasconde molte diversità. I conflitti tra culture diverse sono secolari e sono sempre stato oggetto di agevolazioni politiche e di benefici per i potenti.
Prima di questo governo i campesinos (i contadini) erano oggetto di grande discriminazione: non avevano accesso all’istruzione pubblica, al voto elettorale, all’assistenza sanitaria, all’utilizzo di trasporti pubblici, al diritto al lavoro e alla libera espressione. Secondo la visione estrema del Paese, los campesinos erano una piaga della società boliviana, un impedimento allo sviluppo socio-economico del Paese, dei parassiti sociali.
Il governo di Evo Morales ha cambiato i ruoli sociali: il potere dei campesinos sta cambiando il Paese ma a molti boliviani questo non va ancora giù. Ci sono voluti anni affinchè la società boliviana potesse accettare questo forte cambiamento a prezzo del rifiuto e della discriminazione.
Ma anche in questo caso c’è un grande paradosso: i mass media parlano della discriminazione relativa a los campesinos senza considerare che la discriminazione riguarda tutto un sistema sociale. Il bambino di strada, il lustrascarpe, l’inalatore di colla, l’ubriaco, il drogato, il povero, l’ignorante, il cieco, il disabile, lo straniero, il gringo, il pazzo, il mal vestito, il portatore di AIDS, la ragazza facile, il maschilista, la sottomessa, il ladro, lo spacciatore, lo stupratore, il detenuto e l’ex detenuto. Alcune di queste “etichette” si trovano in tutto il mondo ma la questione difficile da capire è: cosa fa il sistema per combattere queste categorie?

Ester Bianchini
casco bianco ProgettoMondo Mlal Bolivia

martedì 12 ottobre 2010

Haiti, 9 mesi dopo. Il tempo non passa mai

Haiti, 9 mesi dopo. Eppure il tempo sembra essersi fermato al 12 gennaio 2010. I dati ufficiali delle Nazione Unite e del Governo di Haiti riassumono una situazione impressionante: 3,5 milioni le persone colpite dal terremoto, tra cui l’intera popolazione di Port Au Prince pari a 2.8 milioni di abitanti; 222.570 morti e 300.572 feriti accertati; 2.3 milioni di sfollati e senzatetto; 1.300 campi e tendopoli di accoglienza; 105.000 case distrutte e 188.383 gravemente danneggiate. Tra queste il Palazzo Presidenziale, il Parlamento e la Cattedrale di Port au Prince, per un totale del 60% delle strutture pubbliche.
E ancora, 8 ospedali distrutti e 22 seriamente danneggiati, pari a più della metà delle strutture sanitarie dell’area. E 4.992 scuole colpite dal terremoto, pari al 23% delle scuole dell’intero Paese. L’80% di queste –circa 3.978- completamente distrutte.

Nove lunghi mesi dal 12 gennaio del 2010, eppure non si notano segnali di ricostruzione.
Montagne di macerie sono ancora per strada, montagne di rifiuti maleodoranti ai bordi delle strade, specie vicino ai mercati di frutta e verdura che costituiscono la fonte di sopravvivenza per migliaia di famiglie, il brusio costante e ininterrotto di persone, che si muovono, camminano, gremiscono le strade, dribblando le suddette “montagne”, alla ricerca del loro contatto quotidiano.
Port au Prince, come se fosse una città bombardata e subito dopo viene invasa da una popolazione obbligata a sopravvivere in quella distruzione. Eppure, la sensazione che si avverte, fortissima, è di naturale vitalità, di un’umanità che resiste e che si adatta facilmente alla nuova realtà. Forse perché più abituata alla penuria, o semplicemente perché la cosa più importante per l’esistenza umana è la socialità: lo stare insieme ad altre persone rappresneta forse l’unica condizione assolutamente necessaria, seppur non sempre sufficiente, per vivere.

Léogane si trova a circa 30 chilometri da Port Au Prince. Per arrivarci occorre attraversare i quartieri a sud ovest della capitale, come Martissant, dove nell’attraversamento si perde almeno un’ora, quando va bene, tale è l’ingolfamento del traffico provocato dai migliaia di tap tap, bus coloratissimi con frasi straordinarie e originalissime: “La vie n’est pas toujours en rose, parfois elle est noire”, si legge sul retro di uno di questi automezzi che costantemente ti tagliano la strada insieme alle mille moto che, fugaci e temerarie, cercano di guadagnare strada metro su metro.
Léogane è stato l’epicentro del sisma. Una zona rurale dove le case sono rade e non esistono centri urbani concentrati. Qui, le case distrutte dal sisma -quasi al 90%-, non hanno quell’aspetto di morte come nel caso delle macerie di Port Au Prince. Gli odori sono gli stessi di prima, i colori anche, e la vita quotidiana rimane quasi quella di un tempo.
Anche i caschi blu della MINUSTAH sono gli stessi di prima, giovani soldati imberbi, coreani e singalesi, che dirigono alla meno peggio un traffico comunque non caotico. Qui in campagna la distruzione ha essenzialmente colpito strutture, abitazioni e scuole. Invece degli accampamenti con migliaia di famiglie, qui si vedono tende o baracche subito a ridosso delle macerie della propria casa distrutta.
Le uniche tende multifamiliari sono quelle delle scuole, e se ne vedono tantissime. Piene di bambini che vi trovano rifugio, nuovo luogo di gioco, di apprendimento e di futuro. Solo nella terza sezione del comune di Léogane, denominata Grand Rivière, esistono 48 scuole. Di cui solo 7 hanno avuto pochi danni minori, mentre delle altre 41 scuole 29 sono state completamente distrutte e 12 solo parzialmente in piedi.
Nella situazione attuale l’educazione è dunque una delle principali priorità in Haiti.
Il gruppo di lavoro interistituzionale sull’educazione, costituitosi appunto sull’Isola dopo il terremoto per la fase di ricostruzione, ha stabilito che 3.978 sono le scuole distrutte e danneggiate, di cui l’80% non ha ancora ricevuto alcun tipo di sostegno, nemmeno in termini di strutture temporanee e di forniture indispensabili ad assicurare il regolare programma delle lezioni.
Occorre poi segnalare che nel sistema scolastico haitiano prevale ancora una gestione privata delle strutture. Per cui, delle circa 5mila scuole colpite dal sisma, soltanto il 15% circa possono definirsi realmente scuole statali. Per il restante 85% si tratta di scuole riconosciute sì dal Ministero dell’Educazione ma gestite da privati: congregazioni religiose, cattoliche (in misura minore) o di altre chiese cristiane (in larga maggioranza), scuole comunitarie autogestite, o proprietari privati singoli, in moltissimi casi gli stessi direttori.
Si calcola che i destinatari delle diverse iniziative di assistenza post-terremoto siano un totale di 500mila studenti.
Nonostante però tutti gli sforzi per la riattivazione delle attività scolastiche, si è assistito nel periodo post-terremoto comunque a una riduzione delle iscrizioni, a cui si aggiunge uno strutturale basso livello di scolarizzazione (40%).
A Léogane, che è una delle zone maggiormente colpite dal sisma, è tornato a frequentare le lezioni meno del 50% dei bambini in età scolare. E in questo modo anche gli insegnanti hanno in gran parte perso il proprio posto di lavoro, ritrovandosi a ricercare nuove possibili fonti di reddito.
ProgettoMondo Mlal è presente a Léogane da molto prima del terremoto. Ha potuto dare subito una prima risposta immediata di emergenza, ma soprattutto ha potuto fin dall’inizio contribuire al complesso processo di ricostruzione del Paese, con l'avvio immediato del programma "Scuole per la Rinascita".

Mario Mancini
Programmi ProgettoMondo Mlal

ProgettoMondo Mlal: ad Haiti priorità alla scuola

Prima del tragico terremoto che ha colpito Haiti il 12 gennaio scorso, ProgettoMondo Mlal lavorava a un progetto di sicurezza alimentare, cofinanziato dall’Unione Europea, che si sarebbe dovuto concludere nel maggio di quest’anno.
Insieme ai partner locali, Cresfed e Cefecacc, è stato allora relativamente facile organizzare un’immediata risposta, seppur in un contesto di confusione totale e di sorpresa generalizzata. E seppure la mission e l’esperienza delle tre istituzioni non sono certo quelli degli interventi emergenza, si è cercato di far valere il senso di vicinanza, la solidarietà e la buona conoscenza del contesto. A partire da questa specificità, e all’interno di un processo di ricostruzione che si ritiene debba ormai passare dalla risposta umanitaria d’emergenza alla cooperazione allo sviluppo, ProgettoMondo Mlal e i partner haitiani stanno da tempo lavorando a una strategia di intervento in tema educativo che vuole essenzialmente offrire un contributo a tre problemi specifici:

Rispetto alla precarietà e mancanza di un’infrastruttura scolastica garantire la dotazione di impianti transitori.
Infatti la carenza di tali strutture in tutta l’area di Léogane è tra le cause principali della generalizzata precarietà nelle condizioni di insegnamento.
Per la stessa ragione, l’anno scolastico in corso (in Haiti il calendario scolastico va da ottobre a giugno) è stato anche fortemente penalizzato con un tasso di riduzione di scolarità a meno del 50%.

Di fronte alle conseguenze psicologiche post-terremoto, e ai danni rilevanti della sfera emotiva alla popolazione scolastica e agli insegnanti, potere offrire un sostegno e un accompagnamento psicologico per bambini e adulti.
Infatti l’effetto traumatico del terremoto sta provocando un’effettiva riduzione dei già precari indicatori di rendimento scolastico. La convivenza costante con le situazioni traumatiche, senza il rafforzamento di elementi di sostegno psico-sociale e di resilience, potrebbe compromettere definitivamente lo sviluppo emozionale della popolazione scolastica coinvolta. Anche gli insegnanti presentano un quadro di trauma che impedisce lo sviluppo di un’adeguata funzione pedagogica.

Rispetto all’alto livello di vulnerabilità di rischi da fenomeni naturali, introdurre una nuova cultura della prevenzione, della tutela e del controllo di territorio naturale e strutture.
E’ indubbio infatti che la mancanza di una cultura della prevenzione, specie nel settore scolastico, retroalimenta il senso di timore permanente e quindi amplifica gli effetti del trauma subito. Il territorio haitiano è ad altissima vulnerabilità rispetto a rischi climatici e geologici, per cui risulta altamente prioritario soddisfare questa necessità.

Il Progetto “Scuole per la Rinascita” pretende trattare in maniera integrale e interdipendente queste problematiche sfruttando investendo molto sul rafforzamento delle competenze locali.
L’intervento perciò prevede parallelamente un triplice impegno: una selezione coordinata e partecipata di 4 scuole da ricostruire nelle zone rurali di Léogane, per un totale di 1200 bambini/e coinvolti, la promozione di una tecnologia antisismica e rispettosa dei protocolli ministeriali, e la relativa fornitura di mobilio e suppellettili; quindi un’attività di rafforzamento psico-pedagogico, mediante la formazione, aggiornamento e supporto agli insegnanti di almeno 10 scuole rurali, in merito alla messa in atto di un nuovo curriculum scolastico, per un totale di 2400 bambini/e e 94 insegnanti;
e infine l’introduzione di un programma di prevenzione e gestione dei rischi da disastri, con azioni formative e campagne di informazione rivolte a bambini, insegnanti e genitori, con il coinvolgimento di 2400 bambini/e, 94 insegnanti e 500 genitori.
In definitiva, la fase cosiddetta di ricostruzione, deve significare non solo il ripristino delle condizioni pre-esistenti, ma un’opportunità concreta, e sostenibile anche in futuro, per superare i limiti strutturali di un sistema educativo fragile e precario.
In questo momento, infatti, il potere trasformare una catastrofe in un momento di cambiamento costituisce la sfida principale e la priorità di tutti coloro che partecipano alla ricostruzione: autorità nazionali ed entità di cooperazione internazionali.

Per un quadro delle scuole e gruppi meta coinvolti nel progetto: www.progettomondomlal.org

Mario Mancini
Programmi ProgettoMondo Mlal

lunedì 11 ottobre 2010

Vargas Llosa, un “biancone” che gli indios non hanno mai amato

Spesso, il destino sceglie per noi qualcosa di meglio dei nostri desideri. Se lo scrittore Mario Vargas Llosa fosse stato eletto presidente del Perù nel 1990, avrebbe forse affrontato, sul lungo periodo, le stesse glorie e gli stessi abissi vissuti sul piano della popolarità da parte dei due corrotti e autoritari “presidenti ricorrenti”, rieletti e scappati dal paese, a turno, fino dagli anni ‘80: Alan Garìa Pèrez e Alberto Fujimori Fujimori, attualmente in carcere per violazione dei diritti umani. Il destino ci ha risparmiato un mediocre politico e ci ha riservato un grande scrittore, che ha saputo descrivere i meccanismi perversi del potere e delle ideologie. Rimessosi in fretta dalla sconfitta elettorale, Vargas Llosa ha continuato a scrivere aprendo sempre più gli orizzonti della sua curiosità, oltre il Perù, oltre l’America Latina, in Medio Oriente, in Europa e sfiorando l’Iraq.
È il vincitore del Nobel per la Letteratura del 2010. Guardo nelle foto i suoi capelli ora bianchi argentati e ricordo quando, già premiatissimo intellettuale (al tempo, Premio Rómulo Gallegos 1967 e Premio Nacional de Novela del Perú 1967, per La casa verde, Premio Príncipe de Asturias de las Letras 1986 – Spagna) era un mio vicino di casa, tra la calle Las Mimosas e il Malecòn di Barranco sul lungomare fiorito di Lima.
L’edificio di Mario Vargas Llosa aveva la forma allungata di una nave bianca. Tre piani fortificati, come le altre ville della zona, di fronte all’oceano Pacifico. Ero molto piccola quando Vargas Llosa si avventurò nelle elezioni presidenziali del 1990, e della sonora sconfitta ad opera del futuro dittatore Fujimori, percepii solo il rancore arrogante dei suoi fan, che quella notte abbracciarono quelle sue mura con l’orgoglio ferito.
Nella sua sconfitta politica, Vargas Llosa scontò il peso della reciproca incomprensione con il suo paese, a maggioranza meticcia e con un 30% di indigeni: l’essere considerato un “blancòn (“biancone”, cioè bianco ricco e pieno di sé) da parte delle classi popolari, che non gli hanno perdonato né la carriera intellettuale sulla doppia sponda Europa-America Latina, né il fatto che successivamente abbia acquistato anche la cittadinanza spagnola.
Memorabile a questo proposito fu un suo spot elettorale, camicia bianchissima, sulle dune desertiche di una banlieu di Lima. “Modernizzare”, lo slogan, fu recepito dai migranti andini come un’offesa ai loro già epici sforzi per crearsi città con acqua potabile quando la Capitale non concedeva alcun diritto sociale ai meno abbienti: gli ultimi arrivati erano gli ultimi nelle priorità. Da parte sua, Vargas Llosa era attratto dalla “questione indigena” nelle Ande e in Amazzonia, ma la inquadrava in uno schema ideologico, appunto, “modernizzante”, di sottile disprezzo verso la profonda alterità culturale del paese, che vedeva come “primitiva”. Non sorprende quindi che l’amore-odio dello scrittore verso il paese di origine fosse visceralmente ricambiato.
Il meglio di sè Vargas Llosa lo ha dato al mondo attraverso la sua scrittura. E ora che essa è finalmente considerata universale, è diventata anche il ponte d’oro che lo riappacifica con il Perù.
Ogni boccone delle sue opere mi ha fatto navigare nel mare immenso della lingua spagnola. Uomo ricco anche di viaggi, ha descritto una varietà impressionante di socializzazioni e di “poteri”.
Quello militare, con i suoi codici di lealtà e di violenza in “La città e i cani”. Quello dell’ipocrisia moralista in “Pantaleòn e le visitatrici”, dove attacca con ironia il perbenismo degli alti comandi militari alle prese con la libido dei soldatini di frontiera, saziabile da una legione di professioniste del piacere.
Soprattutto, il mondo del potere politico e dell’autoritarismo feroce in “La fiesta del caprone”, nomignolo del dittatore dominicano Rafael Trujillo, ennesimo pupillo regalo all’America Latina da parte degli Stati Uniti.
Il piacere dei suoi romanzi veniva raddoppiato nei relativi adattamenti cinematografici. “La zia Giulia e lo scribacchino” negli Stati Uniti diventa “Tune in tomorrow”, diretta da John Amiel (1990) e protagonizzata da Keanu Reeves. “Pantaleone e le visitatrici” (1973) fu codiretta dallo stesso Vargas Llosa e da José María Gutiérrez Santos due anni dopo, in una prima versione ambientata nella Repubblica Dominicana. Fu subito censurata dall’allora regime militare del nazionalista Juan Velasco Alvarado. Una seconda versione fiorì nel penultimo anno (1999) dell’era Fujimori, diretta dal regista peruviano Francisco Lombardi: la protagonista femminile (“la Brasiliana”) insegna a Pantaleone Pantoja che l’unico vero peccato è non amare. Nello schermo, questa Bocca di Rosa tropicale diventa “la Colombiana”, incarnata dall’attrice Angie Cepeda, dalla bellezza scandalosa. “La città e i cani” fu adattata dallo stesso Lombardi in versione cinematografica nel 1985, vincendo il premio alla Migliore Regia nel Festival di San Sebastián. Nel 2006 il peruviano Luis Llosa porta al Festival di Berlino la sua versione di “La festa del caprone”, protagonisti Isabella Rossellini, Juan Diego Botto, Paul Freeman.
Partito da giovanili passioni rivoluzionarie, Vargas Llosa approda rapidamente a posizioni conservatrici, in netto antagonismo con l’eterno rivale colombiano, il filo-castrista Gabriel Garcìa Màrquez, altro glorioso Premio Nobel dell’America Latina, con il quale si narra anche di scontri fisici con tanto di pugni e occhi neri.
È certamente un freddo analista dei vicoli scuri del potere ideologico, sia esso di “sinistra”, come quello (in “Il Paradiso altrove”) di Flora Tristàn, peruviana residente in Francia, pioniera della rivoluzione marxista e delle posizioni femministe), sia quello dell’evasione totale del pittore Paul Gauguin, nipote di Flora, che abbandona sdegnoso l’Europa in fiamme, in cerca del “paradiso” nelle isole del piacere, in mezzo al Pacifico.
Amico del potere, Mario Vargas Llosa. Non quello alla Trujllo. Certamente quello vicino agli interessi forti dell’economia mondiale e della comunicazione globale. Ma anche uno scrittore con il potere straordinario di avvolgere il lettore.
Quando un artista ti rapisce il cuore, non ricordi solo cosa hai letto di lui, ma anche dove l’hai letto.
Lavoravo in una comunità indigena nell’Amazzonia peruviana. Il tramonto era puntuale, come la consapevolezza che stava iniziando “lo spazio degli animali”, e che le persone dovevano rintanarsi nelle case e, meglio ancora, sotto le zanzariere.
Le famiglie estese si ricomponevano dopo la giornata di pesca e commercio, attorno al fuoco. Guardavo la mia stanzetta, all’interno del centro di salute comunitario. L’infermiera era una succulenta signorina di Lima, con una pettinatura anni ‘50, che appena aveva finito di provvedere all’ultimo bambino coi parassiti, tirava fuori dall’armadio l’amante dalla camicia.
Spesso in quell’ora una pigra malinconia mi stiracchiava il cuore: una delle tante “razze” della solitudine. Qual è la peggiore? La nostalgia di un Dio? La mancanza di uno sguardo innamorato? Per me, la fitta più lacerante, era l’assenza della letteratura. Che non ci fosse un trampolino da questa realtà alla fantasia, al viaggio, alla conoscenza. Solo alcuni libri mi concedevano di sprofondare in quell’apnea.
Saccheggiavo le librerie della capitale per portarmi nello zaino i volumi più pesanti in assoluto: che mi durassero tante, tante notti. E c’era “La guerra della fine del mondo”, di Mario Vargas Llosa. Oltre cinquecento pagine di rivolte antirepubblicane nel Brasile dell’ ‘800, da leggere sotto la zanzariera, con la pila puntata nel centro.
E nel mentre, le tarantole, lentamente, scalavano la parete destra della zanzariera: così, per fare un giretto. Ma non mi trovavo lì, ero a Canudos in Brasile, succube anch’io del messianesimo di Antonio Conselheiro. Poteva succedere qualsiasi cosa attorno a me: ero invulnerabile.
Qualche zanzara si era intrufolata da qualche inevitabile foro (anche le zanzariere sono umane), e mi frullava nelle orecchie, nelle narici. Non avendo altro con cui farla fuori, gli spiattellavo sopra “La guerra della fine del mondo”, in due-tre tempi, chiaro – dilatando la molle caduta della zanzariera – come il pallone quando fa gol, e favorendo l’entrata fulminea di altri insetti: i prossimi tormenti aspettavano golosamente sul cuscino.
Ho incrociato Vargas Llosa sul lungomare di Lima e nel teatro dell’Alliançe Française: in entrambi i casi gli ho detto “grazie per avermi salvato dalla solitudine di certe notti”. Entrambe le volte mi rispose: “è questo il potere della letteratura”.

di Azzurra Carpo
ex cooperante ProgettoMondo Mlal in Amazzonia-Perù per il progetto "Indigeni Shipibo"

venerdì 8 ottobre 2010

Quando la guerra non è solo un gioco

Bambini che vivono in strade senza spazi per giocare. Senza piazze, campi da calcio o giardini in cui correre. E il cui massimo svago è quello di lanciare i sassi contro i carri armati che entrano nel campo profughi in cui vivono. Sono quasi 4 mila i piccoli palestinesi che abitano nel campo Aida di Betlemme, in un contesto che ospita circa 6 mila abitanti.
Per loro la parola pace è difficile da figurare, abituati a soldati, spari, limitazioni continue alla loro libertà e per questo pieni di tanta energia repressa che non vedono l’ora di sfogare. Una possibilità, quella di scaricare lo stress e la voglia di “evasione”, che oggi viene in parte offerta loro dall’associazione Al Rowwad, una realtà nata nel campo circa 15 anni fa e che ora, grazie a un finanziamento europeo, sta mettendo in pratica nuove modalità di gioco per coinvolgere e andare incontro alle difficoltà di bambini, e non solo. Lo fa con un’officina per realizzare giochi con materiale di recupero, spazi in cui svolgere laboratori di teatro, ginnastica o arte e soprattutto tanta voglia di entrare in contatto con la cittadinanza, spesso anche adulta.
Tre in tutto gli operatori, costretti a volte a confrontarsi con gruppi di persino 500 bambini. Ma che lo fanno con un impegno e una tenacia che, con tutte le difficoltà del caso, li portano a dare il massimo dell’entusiasmo e della convinzione, per permettere ai piccoli di oggi di crescere qualche possibilità di “normalità” in più e in una realtà il più possibile adatta alla loro età.
Due degli operatori, Ramzi, 26enne laureato in psicologia e Maher di soli 21 anni, sono a Verona in questi giorni in occasione della manifestazione “Territori in gioco” che, tra l’8 e il 10 ottobre vedrà scendere nelle piazze della Valpolicella una trentina di associazioni impegnate a confrontarsi sui temi dell’intercultura e dell’ecologia tramite appunto il gioco, in particolare con la metodologia del Ludobus. Una realtà, quella del bus attrezzato, che è stata recentemente adottata anche per i bambini del campo profughi di Aida.
Vogliamo che i bambini costretti a vivere nel campo non debbano affrontare da soli i traumi che noi stessi abbiamo vissuto da piccoli”, dicono gli operatori. “Alcuni hanno perso una gamba, altri hanno genitori morti o in prigione. Si avvicinano alle nostre attività con timore o con una rabbia repressa che li porta a distruggere i giochi che diamo loro. Ma con il tempo stanno capendo che quei giochi sono i loro giochi e che ognuno di loro ha la possibilità di giocare a fianco dell’altro”.
Ogni giorno gli operatori si spostano in parti diverse del campo. Fissano un cartello in strada per segnalare la loro presenza e renderla quindi chiusa al traffico, e propongono una serie di attività a bambini e ragazzi. “Le scuole sono spesso in sciopero e i bambini, come del resto gli adulti, si annoiano. A volte poi, con i militari in strada, non escono nemmeno per incontrarsi tra loro e in ogni caso le case sono l’una attaccata all’altra e gli spazi davvero limitati. Noi vogliamo fare in modo che questi bambini siano più tranquilli, che non siano abbandonati a loro stessi. Li attiriamo con giochi semplici realizzati con materiale povero e di scarto e poi, mano a mano, sono loro stessi a insegnare i giochi che proponiamo ai nuovi arrivati”.
Una realtà, quella del campo, difficile da immaginare per chi non c’è nato e non ci si confronta quotidianamente. E in grado persino di svuotare il significato di parole per noi quasi scontate come la pace o la capacità di sognare un futuro che non sia solo di rivendicazione e senso di giustizia.

Le autorità del Mozambico: quello con i detenuti è un ottimo lavoro

Un buon lavoro, da allargare nel resto del Paese. L’ambasciatore italiano in Mozambico, Carlo Lo Cascio, non ha dubbi sulla qualità del progetto che la nostra organizzazione sta realizzando nel paese africano per migliorare le condizioni di vita dei reclusi della Provincia di Nampula.
Dopo aver partecipato al recente seminario organizzato tra Maputo e Nampula a conclusione del nostro progetto appena concluso, “Diritti in carcere”, Lo Cascio ha infatti espresso il desiderio di essere accompagnato dalla nostra capoprogetto sul campo, Angela Magnino, durante una successiva visita a Nampula.
Oltre alla Facoltà di architettura dell’Università Lurio, all’ospedale di Marere, a un progetto con i disabili e a una comunità famiglia della zona, l’ambasciatore ha avuto modo di incontrare il governatore della provincia di Nampula, Felismino Tocola, e con lui addentrarsi nella penitenziaria in cui si svolge il nostro attuale progetto “Vita dentro”. Un progetto che lo stesso governatore ha elogiato e ha chiesto possa arrivare a coinvolgere la polizia penitenziaria e i tribunali, e che ha impressionato Lo Cascio, specie per il clima di collaborazione percepito all’interno della struttura. Da qui la promessa di inviare una lettera al Ministro della giustizia Maria Benvinda Levi per commentare favorevolmente la sua visita e invitarla a considerare l’ipotesi di riprodurla nell’intero Paese. Promessa mantenuta, visto che due soli giorni dopo (i primi di ottobre) lo stesso ministro ha inviato un messaggio di apprezzamento alla nostra capoprogetto, descrivendo il lavoro svolto nelle carceri di Nampula, come un buon esempio di cogestione delle attività educative e di reinserimento dei detenuti.
L’ambasciatore ha promesso di tornare a Nampula, possibilmente in occasione della venuta dello stesso Ministro della Giustizia, e – fa sapere Angela Magino – “ha confermato che noi possiamo continuare ad essere la sua antenna qui nel Paese”.

giovedì 7 ottobre 2010

La ricostruzione di Haiti in una video intervista

Bambini che non dormono o hanno difficoltà di concentrazione e nelle relazioni con i coetanei, che vivono in contesti familiari completamente distrutti e che richiedono anche il coinvolgimento di tutti per tornare a sollevarsi. Genitori che non hanno più un lavoro e impossibilitati a offrire condizioni di vita “normali” ai loro figli. Insegnanti che non sanno come affrontare le nuove condizioni psicologiche dei loro studenti, e vittime loro stessi delle conseguenze post terremoto.
Una situazione - quella descritta dal nostro capoprogetto ad Haiti Nicolas Derenne in una video intervista realizzata in occasione della presentazione alla cittadinanza di Aosta del progetto “Scuole per la rinascita” avviato a Lèogane dalla nostra organizzazione all’indomani di quel tragico 12 gennaio - che rende chiara la necessità di ricostruire un Pese da zero da tutti i punti di vista, al di là delle case, delle scuole, degli edifici e delle strade che non ci sono più.
Ecco allora che, in attesa che le nuove strutture scolastiche siano di nuovo in piedi, continua il lavoro costante con gli psicologi dell’equipe, decisi a far tornare la voglia di studiare, giocare e sorridere ai più piccoli, anche “istruendo” i loro insegnanti su come percorrere insieme un cammino di superamento del trauma. Perché, come ben spiega nel video il nostro Nicolas, la ricostruzione in atto possa essere davvero di qualità.
Teatro, danza, arte… una serie di laboratori che giorno dopo giorno lavorano sui singoli bambini o in relazione al gruppo e che si avvalgono di psicologi e formatori locali: punto di forza del nostro modo di operare nei paesi del Sud del mondo.

martedì 5 ottobre 2010

98 giovani pronti a partire. Al via le selezioni

98 domande per 20 posti disponibili! Il termine della presentazione delle candidature per svolgere un anno di servizio civile all’estero si è concluso. E le richieste, a quanto pare, non mancano. Molti i giovani pronti a partire per dare il loro contributo al sud del mondo tramite uno dei nostri progetti in Africa e America Latina, e due tra tutti i paesi più ambiti: Marocco e Argentina.
Oltre la metà delle candidature, circa 50, puntano infatti a queste due mete, dove i progetti sul campo riguardano l’edilizia popolare per le famiglie di Cordoba e Santa Fe e l’istruzione dei piccoli marocchini della regione di Tadla Azilal.
E tra i futuri caschi bianchi provenienti da tutta Italia, c’è anche chi, proprio in quei paesi, ci è nato, pur avendo ormai la cittadinanza italiana.
Per gli altri ad aspettarli ci sono invece la Bolivia, il Brasile, il Guatemala e il Nicaragua. Ma anche il Burkina Faso e il Mozambico.
Ora si tratta solo di procedere con le selezioni per individuare, tra tutti, i profili più adatti a offrire il proprio servizio nella solidarietà internazionale e conoscere da vicino il mondo della cooperazione allo sviluppo. Un lavoro che durerà fino a novembre.
Per i nuovi caschi bianchi individuati la partenza avverrà poi nel prossimo febbraio, dopo un apposito corso di formazione che li prepari ad affrontare al meglio la nuova avventura che li attende dall’altra parte del mondo.