venerdì 29 marzo 2013

Le ricette della solidarietà, a tavola e in libreria

Continua imperterrita la lotta contro la malnutrizione, tra fornelli e presentazioni pubbliche in libreria, insieme a raccolte fondi tramite panettieri e negozietti sensibili alla causa.
Il 2013 è iniziato all'insegna della solidarietà, grazie al costante impegno delle foodbloggers di tutta Italia che fin da subito hanno aderito alla campagna “Io non mangio da solo” lanciata da ProgettoMondo Mlal lo scorso settembre per contribuire a garantire la sicurezza alimentare in 7 Paesi di Africa e America Latina.
Protagonista indiscusso del tam tam per un'alimentazione garantita ed equilibrata per tutti, è senza dubbio il libro di ricette “Buono come il pane, che raccoglie intingoli e piatti appetitosi elaborati dalle 12 foodbloggers vincitrici del contest lanciato dal blog “Lo Spilucchino” di Virginia Portioli a sostegno della nostra campagna.
Pietanze che, proprio per moltiplicare e diffondere la solidarietà, sono state recentemente cucinate per eventi pubblici e singolari cene che hanno attirato un tale numero di partecipanti e commensali da lasciare decisamente ben sperare che entusiasmo e partecipazione continueranno a crescere.
Così, se a Caserta “Buono come il pane” è stato presentato alla bottega dell'altro mondo tra degustazioni del Lievito Madre e grazie all'ormai “nostra” Antonietta Golino che ripeterà l'appuntamento in altre 3 location, ad Ancona Carla Manfredi ha presentato il ricettario alla libreria San Paolo con una versione finger food della sua pietanza “la zucca arrangata”. Il libro sta poi trovando nuovi canali di diffusione in panetterie della provincia di Verona, grazie alla divulgazione di Cinzia Martellini Cortella, mentre nei dintorni di Palermo, l'audace Daniela Bucalo, con le sorelle Laura e Patrizia, ha addirittura organizzato una mega cena per 90 banchettanti, scegliendo 11 dei patti del libro, tra antipasti, primi e dolci.
Scrive entusiasta nel suo blog, raccontando l'iniziativa: “È stata davvero una serata bella, all'insegna della buona cucina casareccia, del divertimento e della solidarietà. L'adesione è stata notevole, abbiamo anche dovuto dire di no a diverse persone e io e le mie sorelle, abbiamo cucinato per 90 persone :-)!!!”.
Insomma, dopo “un tour de force culinario”, e una giornata trascorsa in campagna a spignattare “per aiutare chi ha più bisogno di noi”, i risultati non sono mancati, e i commensali se ne sono tornati a casa “con un bel sorriso, soddisfatti e con sottobraccio il libro "Buono come il pane"... e questo era quello in cui speravamo ;-)”.
Gli appuntamenti proseguono con altri incontri già in programma per che prevedono una presentazione del ricettario giovedì 2 maggio alle 18 a Verona, grazie alla libreria Feltrinelli, e il 6 maggio a Bergamo. Come detto, anche Caserta continua a divulgare il libro: il 12 aprile alle 17.30 alla Biblioteca comunale in via Vespucci a Marcianise, il 10 maggio alle 17.30 alla Bottega del mondo equo solidale, in via San Carlo, 22 a Caserta e il 2 giugno alle 13 tutti in tavola con il pranzo completo a Villa Hela in via Villanuova, 35 a Caiazzo.

Insieme ai manicaretti delle bloggers, a girare sono anche i pannelli della mostra didattica “Mangiare bene, mangiare tutti” per promuovere il Diritto al cibo specie fra i più piccini.
La mostra, infatti, continua a trovare sguardi attenti tra le scuole italiane, dove ProgettoMondo Mlal organizza anche laboratori e attività di raccolta fondi.
Subito dopo Pasqua, i pannelli saranno esposti al liceo Gobetti-Segrè di Torino, prima nella succursale di Corso Alberto Picco (dal 3 al 6 aprile), e poi nella sede di Via Maria Vittoria (dall'8 al 13 aprile). Dal 15 al 20 aprile, invece, le immagini della mostra stimoleranno la riflessione dei piccoli della scuola elementare Italo Calvino.
A fine mese, tra il 23 e il 27 aprile, i pannelli si sposteranno a Verona, all'Istituto Tecnico Marconi, dove ogni ultima settimana del mese, fino alla chiusure delle scuole, è di scena la campagna “Rinuncia a una coca e a un panino”, per sostenere appunto i 10 programmi di cooperazione allo sviluppo per la sicurezza alimentare delle comunità di Bolivia, Perù, Haiti, Guatemala, Burkina Faso e Mozambico.

Per qualsiasi richiesta, curiosità o informazione: ProgettoMondo Mlal viale Palladio 16 - 37138 Verona, tel. 045 8102105, sostegno@mlal.org.

Mozambico: "Migliorare il sistema delle carceri"


"Sistema di governo e carceri mozambicane vanno migliorate". A dichiararlo, in un'intervista al giornale Verdade On line è Francesco Margara, coordinatore per ProgettoMondo Mlal del programma Vita Dentro, nato per migliorare la condizione dei detenuti, soprattutto giovani, nella provincia di Nampula. Un'esigenza dettata non solo dalle condizioni di vita dei detenuti, ma anche dalla discriminazione che sono costretti a subire dalla società, una volta usciti di progione e ritornati nelle comunità di rifeirimento.

Che cosa è ProgettoMondo Mlal?
ProgettoMondo Mlal è un'organizzazione non governativa italiana, impegnata nella provincia di Nampula dal 2002. All'inizio, abbiamo lavorato con la Caritas in materia di diritti umani, in particolare per le persone con poca conoscenza della cultura giuridica, specie detenute.

Qual è il vostro obiettivo?
Puntiamo a migliorare le condizioni di base dei prigionieri nella provincia di Nampula, dove lavoriamo in particolare nella Penitenziaria Industriale e nel Carcere femminile, che si trova in una zona chiamata Rex, oltre alla Prigione Provinciale di Nampula. Mi preme rilevare che ci dedichiamo in particolare ai giovani detenuti, dai 16 ai 21 anni, in Mozambico.

Cosa ha motivato la scelta della provincia di Nampula per svolgere le vostre attività?
Dopo un attento studio, abbiamo scoperto che la provincia di Nampula ha il più alto numero di casi penali in Mozambico, quindi abbiamo concentrato le nostre attività per i detenuti, perché eravamo preoccupati per la loro situazione. Abbiamo ideato un progetto in grado di garantire il rispetto dei loro diritti umani, e progettato strategie che ci permettano di vivere a contatto con chi vive in carcere, che ha così potuto comprendere noi e il nostro lavoro. All'inizio si è trattato di scegliere detenuti di buona condotta, spiegando loro come comportarsi e come evitare conflitti con gli ufficiali penitenziari. Piano piano abbiamo guadagnato forza introducendo diversi pacchetti formativi, puntando molto sull’aspetto culturale con gruppi di teatro, musica, squadra di calcio, e tutte le altre attività che possono creare un momento di svago.
Puntiamo molto anche sull’istruzione, impegnandoci per il recupero dei giovani detenuti insieme al Servizio Nazionale delle Prigioni (SNAPRI), l'Università Cattolica del Mozambico (UCM), UNILÚRIO, Caritas e l’Istituto per assistenza legale (IPAJ).

Che cosa è stato fatto in concreto per il bene dei detenuti?
Abbiamo un programma basato sull’ "arte terapia", che serve per aprire le menti dei detenuti, farli divertire e creare spazi abitativi degni durante la loro permanenza negli istituti di detenzione. Ciò che spesso accade nelle carceri del Mozambico è che molti reclusi non vivono davvero la propria vita, e questa si riduce a una condizione di inutilità. Partecipando al nostro programma, invece - che prevede anche attività come agricoltura e allevamento di polli - non sono obbligati a pensare troppo alla situazione in cui si trovano.
E’ per questo che abbiamo formato "Anamawenchiwa", un gruppo musicale che ha partecipato a numerosi festival, in particolare il Tambo Tambulani Tambo a Pemba, provincia di Cabo Delgado, il Festival della cultura di Beira, il Festival dei Giochi tradizionali a Lichinga e il Festival di musica tradizionale di Ilha de Moçambique. Oltre a questo ensemble musicale, è stato formato un gruppo teatrale che ogni settimana viaggia nelle carceri distrettuali della provincia di Nampula.
Abbiamo poi aiutato nel reinserimento sociale i detenuti che hanno finito di scontare la pena, soprattutto per renderli capaci di realizzare attività generatrici di reddito e gestire il proprio auto-sostentamento, smettendo così di commettere crimini. Il risultato sono fabbri, falegnami, elettricisti, muratori, operatori turistici, idraulici e agricoltori, formati con corsi riconosciuti dall'Istituto Nazionale del Lavoro e la Formazione Professionale e finanziati da ProgettoMondo Mlal attraverso i fondi dell’Unione Europea.

Quanti detenuti sono stati formati fino ad ora?
Finora abbiamo formato più di 200 persone che sono già fuori dalle loro celle e che stanno svolgendo attività produttive nelle loro comunità d’origine. Ciò che vogliamo è che gli ex-detenuti non vengano emarginati dalla società a causa della mancanza di conoscenza di alcune attività. La loro formazione inizia in prigione e sono accompagnati fino al ritorno nella comunità. Così abbiamo promosso seminari su salute, educazione civica, comprese le leggi che li difendono e li condannano e l'istruzione. Quest'anno sono 500 le persone che sono state coinvolte nelle attività.

Chi si occupa delle formazioni ai detenuti?
La nostra equipe è formata da professionisti di livello superiore in diversi settori, quali la sanità, l'istruzione, il commercio, l'agricoltura, l'allevamento dei polli e l'imprenditorialità. Essi lavorano dentro e fuori delle carceri.
Dopo l'uscita dal carcere, gli educatori accompagnano gli ex-detenuti per presentarli alle autorità locali, in modo che non vengono respinti dalla comunità per il timore che commettano nuovi reati. Lo facciamo perché in Mozambico esiste una cultura di esclusione sociale nei confronti delle persone che escono di prigione.
In questo momento stiamo dando assistenza a 30 ex detenuti per il loro reinserimento nelle comunità, e anche se non facciamo miracoli, ci sono utenti che decidono di non ritornare a commettere reati. Coloro che seguono i nostri consigli riescono a formare famiglie, continuano a studiare e sviluppano le loro attività produttive.

Esiste l’emarginazione degli ex detenuti nella società mozambicana?
Sì, dopo che un cittadino rimane a lungo in carcere, la sua reintegrazione nella società non è facile. La comunità non ne vuole sapere di lui, afferma che è un criminale, non importa che abbia scontato la sua pena. Sostiene che non si può vivere con gli altri senza correre il rischio di trasmettere loro "un comportamento deviante". Questo è il motivo per cui seguiamo il detenuto dopo il suo rilascio, oltre a finanziare i corsi professionali.

Ha parlato giovani detenuti in Mozambico, quanti sono detenuti nelle carceri in cui promuovete le vostre attività?
In questo momento lavoriamo con 200 giovani detenuti. Con la nostra presenza nelle carceri, si crea uno spazio che noi chiamiamo "Prigione Scuola" dove hanno celle separate dagli adulti, si rinuiscono durante il tempo libero o durante l’ora d’aria. Il nostro sforzo è evitare, per quanto possibile, l'interazione tra giovani e adulti detenuti.
Nel 2006, nella Penitenziaria Industriale di Nampula esisteva solo la sesta classe (equiparabile alla nostra prima media) mentre ad oggi siamo arrivati ad avere l’undicesima, e il prossimo anno si arriverà alla dodicesima. Questo è stato uno dei più grandi successi ottenuti in tutti questi anni, perché ora tutti i giovani detenuti (200 in totale) frequentano la scuola, senza dimenticare che anche gli adulti hanno la stessa possibilità di studiare.
I certificati vengono rilasciati dal Ministero della Pubblica Istruzione. Purtroppo devo riconoscere che alcuni giovani non hanno l'età minima imputabile di 16 anni, come a norma di legge in Mozambico. Alcuni di loro, infatti, hanno 14 o 15 anni e sono detenuti perché non hanno un documento identificativo che permetta loro di dimostrare la loro età reale. Questo è un problema in un paese dove è normale trovare persone che raggiungono l'età adulta senza mai aver posseduto un documento di identità valido.

Chi finanzia la realizzazione delle vostre attività?
Abbiamo avuto due progetti fino ad oggi, il primo finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano, il secondo dall’ Unione Europea. Per la realizzazione abbiamo avuto un finanziamento di circa € 800.000, che ha consentito l'introduzione di corsi di formazione professionale per i detenuti, la promozione delle attività agricole e di allevamento di polli e l'installazione di postazioni sanitarie all’interno degli istituti penitenziari.

Cosa si produce nei centri aperti di Itocolo e Rex?
Abbiamo a disposizione circa 500 ettari di terreno, dove produciamo vari prodotti agricoli come mais, ortaggi, manioca, alberi da frutta e dove facciamo allevamento di polli. In questi campi lavorano solo detenuti che poi usufruiscono del risultato che viene destinato al miglioramento della loro dieta.
L'anno scorso abbiamo fornito alimenti per circa due mila persone nel corso di otto mesi con due pasti al giorno, cosa che non accadeva prima, quando avevano diritto a un solo pasto al giorno. Nel centro aperto nella zona Rex, abbiamo creato un nucleo di produzione di polli, gestito da quattro donne detenute. Questo ha migliorato la loro dieta. Ora mangiare pollo due volte a settimana è, di fatto, una realtà.
Con i fondi del progetto abbiamo inoltre finanziato tre cicli di produzione di poco più di 500 polli e tutti gli utili sono stati utilizzati per aumentare lo spazio a disposizione e per ripartire con altre produzioni. Da tre mesi stiamo producendo tra i 600 e i 700 polli, che sono destinati al mercato locale e all'alimentazione delle detenute.

I diritti dei detenuti sono violati nelle carceri della provincia di Nampula?
Da quando ProgettoMondo Mlal ha iniziato a lavorare in questa città, le cose sono migliorate in modo significativo. Le violazioni sono sempre esistite, non è colpa di qualcuno in particolare, ma piuttosto è il sistema di governo del paese che non è giusto. Bisogna capire che quando si parla di violazioni dei diritti umani delle persone, non ci si riferisce solo ai maltrattamenti o alla mancanza del diritto di parola, ma si deve guardare alla mancanza del rispetto delle procedure rispetto alle leggi esistenti. Ancora una volta dico che sono il sistema di governo o le prigioni a dover essere migliorati, non le persone.

Quali sono le condizioni di vita nelle celle della provincia Nampula?
Per quel che ho potuto vedere esiste il problema del sovraffollamento, ma non è una situazione preoccupante. Le condizioni più precarie sono nei carceri distrettuali dove, oltre al sovraffollamento, esistono problemi per le condizioni igieniche precarie, che richiedono un intervento immediato.

Quali sono i prossimi passi di ProgettoMondo Mlal?
Come ho detto all'inizio, dopo aver completato il progetto "Vita Dentro", nell’ambito dei diritti dei detenuti, stiamo cominciando un nuovo progetto coordinato dal Centro di Ricerca Konrad Adenauer, la cui missione sarà quella di eseguire una ricerca sulla situazione della componente sociale di megaprogetti che svolgono le loro attività in Mozambico. Vogliamo portare tutti coloro che sfruttano le risorse naturali a lasciare un'eredità che può segnare tutti i mozambicani e coloro che un giorno verranno a visitare questo paese.
Vogliamo anche fare una ricerca che promuova la questione della responsabilità sociale in Mozambico, che mira a richiamare l'attenzione delle autorità governative, al fine di dare un contributo in un ambito purtroppo molto nuovo nel paese.

mercoledì 27 marzo 2013

Intervista a Suzy Castor, la pasionaria haitiana


Suzy Castor, già da molti ribattezzata la pasionaria haitiana, nell’86 è fondatrice insieme al marito del Centre de recherché et formation economique et sociale pour le développement, principale riferimento culturale per la storia del Paese. Alle sue spalle un lungo esilio in Messico durante la dittatura Duvalier, che la rese riferimento all’estero per miglia di rifugiati centroamericani, il prestigioso Premio spagnolo Juan Mari Bandrés per l’accoglienza dei rifugiati, la partecipazione alla giuria del Tribunale dei Popoli, la nascita e affermazione del partito di opposizione Olp –Organizzazione del Popolo in Lotta- e il matrimonio di sentimento e condivisione politica con Gerard Pierre-Charles (1935-2004), noto studioso e politico di sinistra, nel 2004anche candidato al Premio Nobel della Pace.
Con Il Cresfed, e quindi con la sua guida Suzy Castor, ProgettoMondo Mlal collabora da anni in progetti di cooperazione allo sviluppo. Attualmente sono due gli impegni che legano questa storica partnership: un progetto di sicurezza alimentare nell’altipiano centrale del Paese e nel nord est, e il progetto Viva Haiti per lo sviluppo partecipativo di un territorio estremamente degradato, nel sud est al confine con la Domenicana.
Abbiamo incontrato Suzy Castor il 14 febbraio scorso nella sua bella casa di Port au Prince per tastare con lei il polso dell’anima haitiana a 3 anni esatti dal terremoto del 12 gennaio 2010.

QUAL È LA SITUAZIONE AD HAITI A 3 ANNI DAL TERREMOTO?
Se tutta la cooperazione offerta ad Haiti avesse dato, in proporzione, eguali risultati oggi non ci troveremmo a questo punto.
Studiando ciò che è stata la cooperazione dal 1975 a oggi, noteremmo infatti come sia stata enorme, e quanto sia andata aumentando nel tempo. Dunque, vista la situazione, è il caso di dire che c’è qualcosa che non funziona, sia da parte di Haiti sia da parte di chi dona.
Non si può negare che parte della cooperazione è realmente stimolante: se ne vedono i risultati e anche l’apprezzamento della gente. Così come, risulta altrettanto vero, esistono buone istituzioni che lavorano nella cooperazione e che hanno dei buoni risultati.
Ma si tratta di risultati circoscritti che si verificano in una certa zona, o in un preciso ambito ma che poi, a livello nazionale, non hanno un vero impatto. O meglio, perché avessero un impatto concreto e duraturo, sarebbe necessario che prima fosse incardinato in una visione, che tutto venisse cioè calato in una visione di politica nazionale, in un’azione di governo.
Perché, senza la partecipazione e l’orientamento da parte di un governo, o in mancanza di un Piano complessivo fatto dal governo basato su un orientamento definito e studiato sull’analisi di ciò che conviene o non conviene ad Haiti, e dunque sull’ambito in cui intervenire, su cosa e quanto serve andare a rafforzare e in quale direzione, beh diventa difficile che la cooperazione possa veramente dare dei resultati!
Lo stesso vale da parte della cooperazione interazionale: ci sono delle istituzioni – sfortunatamente non le più potenti- che comprendono ciò che è solidarietà e ciò che è cooperazione.
Molto spesso, però, quando dietro le istituzioni ci sono i Paesi, i governi, un altro tipo di scelte, la potenzialità di commettere errori si fa davvero concreta.
Perché a quel punto, ciò che si viene a fare qui ad Haiti, non sono tanto dei progetti pensati in accordo con la popolazione del Paese quanto più semplicemente progetti che vengono “realizzati”.
E che dunque non hanno l’impatto che avrebbero potuto avere se avessero coinvolto la popolazione.
Altre volte si tratta di progetti calati dall’alto, del tutto estranei al contesto, e che in definitiva non hanno niente a che vedere con la realtà di questo Paese.
Così come oggi, molti dei lavori, e dunque dei soldi a questi destinati dalla cooperazione, sono stati invece affidati da governi e istituzioni a imprese del proprio Paese o straniere, come nel caso della Domenicana che è risultata beneficiaria di moltissimi contratti per la ricostruzione, sia di infrastrutture che di ricostruzione vera e propria ad Haiti.
La prima conseguenza di questo è che in definitiva la cooperazione non favorisce né consolida le imprese haitiane, dunque le imprese haitiane non hanno nemmeno beneficiato di questa ricostruzione. Tutto ciò crea del malcontento...
Naturalmente ci sono delle leggi e delle regole specifiche, ma se la cooperazione rispecchiasse davvero il modo di rapportarsi con l’estero di un determinate Paese, non potremmo negare che, oltre alla solidarietà, e dunque alla sincera voglia di donare, ci sono in gioco anche altri interessi.
Tutto questo per dire che, se nell’ambito della cooperazione internazionale si riscontra un cattivo modo di ricevere, - e in questo senso il governo haitiano ha le principali responsabilità- non si può tacere che c’è anche un cattivo modo di dare. E credo sia quanto accade ad Haiti.

E' GIUSTO DIRE CHE HAITI È UN PAESE SENZA STATO?
La storia di Haiti si è tutta sviluppata attorno a delle grandi opportunità perdute. Dopo il 1986, per esempio, nel popolo haitiano era andata crescendo una grande speranza e la convinzione di avere davanti una grande occasione. Come haitiani dal 1987 abbiamo infatti una Costituzione e, dopo lo stato dittatoriale si voleva ovviamente costruire un nuovo stato democratico, si voleva concretizzare la nuova filosofia che avrebbe guidato il nuovo Paese… ma per avere uno Stato, è necessario prima costituire le sue principali istituzioni. Dunque non basta la visione serve anche chi la incarna.
E invece, a cosa abbiamo assistito? Non solo non sono nate le istituzioni previste dalla Costituzione ma, anzi al contrario, abbiamo assistito a una deistituzionalizzazione di ciò che avevamo costruito fino ad allora. Così oggi abbiamo uno Stato in crisi che non assolve alle sue funzioni, uno Stato estremamente debole.
Non dico che lo Stato non esista, perché, quando si tratta di repressione sa farsi sentire con la popolazione, ma se si tratta di rispondere piuttosto ai suoi bisogni o alle esigenze del Paese, allo si scopre quanto questo sia minimalista, eccessivamente debole, per non dire inesistente.
Ciò ci mostra sia la profondità della crisi -perché quando diciamo che lo Stato è debole, sappiamo che è una debolezza che ha radici molto profonde- sia quanto sia arduo, se non impossibile, re-indirizzare uno stato così debole.

LA CONTINUA PRESENZA DEI MILITARI AD HAITI, COME VIENE VISSUTA?
Un Paese che ha ottenuto l’indipendenza a certe condizioni, e che nella transizione ha conosciuto l’occupazione militare, oggi continua a vivere con i militaria casa propria.
Sebbene questa di oggi non sia l’occupazione nord-americana del 1915-1935, comunque sempre di presenza di soldati sul suolo nazionale si tratta.
Inoltre, a questa occupazione fisica si accompagna una forma di tutela, perché attualmente, che si dica o no, Haiti è un Paese sotto tutela.
E a questo proposito torniamo alle responsabilità del governo: sono i governi infatti che siglano gli accordi, che chiedono, che hanno sollecitato questo intervento, questa presenza. Sono sempre i nostri governanti che, in un totale laissez faire, spariscono sotto le influenze internazionali.
In definitiva Haiti vive oggi sotto una tutela, anche se non se ne dice il nome, che non è legale. E credo che questo sia un aspetto che pesa molto sulla situazione attuale.
E’ una condizione dura da sopportare, si fa come se tutto questo non pesasse... ma la tutela è là.


ESISTE UN IMPEGNO CIVILE ORAGNIZZATO E COME SI STA SVILUPPANDO?
Al trionfo popolare contro la dittatura del 1986 aveva contribuito un grande fermento, attraverso le sue tante forme organizzate, che è cresciuto fino al trionfo di Aristide nel 1990. Ed è insindacabile che si sia trattato di una vera vittoria, una grande vittoria popolare, perché ha davvero rappresentato il concretizzarsi di una comune lotta anti-dittatoriale che ha impedito al neoduvalierismo di affermarsi. Sul come poi siano andate dopo le cose è un’altra storia.
Ora il terremoto ha contribuito a invertire quella tendenza popolare, per premiare invece le gestioni di Aristide, Preval e ancora Aristide, e addirittura a disarticolarla, e disarticolare a la strutturazione dei partiti che sarebbe potuti nascere. Con il terremoto insomma abbiamo ricevuto un colpo molto duro e attualmente ciò che Rimane di quella forza popolare è molto debole, sia per quanto riguarda la società civile sia per ciò che sono oggi i partiti politici.
Ciò nonostante un principio di organizzazione esiste, dunque si avverte un inizio di rinnovamento, non ripartiamo da zero! Ci sono giovani che cominciano a credere nello sviluppo del loro Paese, mentre prima tutti volevano andarsene, al grido di “si salvi chi può”. Sarà forse sarà per la difficoltà che a livello internazionale si sta vivendo anche negli altri Paesi, e che smentisce quell’immagine di Eldorado come volevamo pensarlo, sta di fatto che notiamo una sfumatura -non proprio ancora una caratteristica- per cui molti giovani che prima partivano, e non volevano più tornare, ora mettono in conto di tornare.
E credo che questa sia una buona cosa.
Da un altro punto di vista, e malgrado sia lungo il cammino compiuto dalla democrazia, settori sempre più ampi prendono coscienza della situazione, di quali sono i rischi per lo sviluppo della democrazia, e che per questo sono determinati a lottare.

PERCHÉ È FATICOSO FARE COOPERAZIONE AD HAITI?
E’ infatti innegabile che nel corso dell’intero periodo di transizione ci sono stati notevoli progressi, tanto che oggi possiamo apprezzare di sapere cosa è stato il duvalierismo -il periodo dittatoriale in cui erano negate le libertà principali pubbliche, come il diritto alla cittadinanza, il diritto di parola, di associazione, addirittura il diritto di movimento, e vigeva, diciamo, un controllo molto rigido e un vero e proprio terrorismo di Stato, prima, e la repressione, poi, che soggiogava la popolazione. Oggi possiamo dire che in questo Paese, a partire del 1986, le libertà di cittadinanza esistono. Oggi la radio haitiana è parola, la radio è libera, la gente parla, la gente non ha paura ...
E molto difficilmente potrà ormai esserci sottratta questa conquista di libertà.
Pur tuttavia, l’altra faccia di questa conquista, dell’esercizio della cittadinanza; l’avete sotto gli occhi nella situazione che vive Haiti: ampi strati della popolazione non godono dei diritti sociali, dei diritti economici, dei diritti dello sviluppo della loro personalità, nella loro integralità, come dovrebbe essere... Ed è in questa dicotomia che la gente vive: da un lato la situazione viene vissuta come molto dura, difficile, mentre dall’altro, proprio per la sua durezza, accresce la volontà di salvare ciò che si può salvare, ciò he è stato conquistato fino a oggi, e di scoprire se in definitiva possiamo arrivare a una forma di organizzazione che apra il cammino ad altri orizzonti...

QUAL È L'ANIMO, IL CARATTERE DEGLI HAITIANI?
Effettivamente gli haitiani, tutti gli haitiani senza eccezioni, sono molto fieri del passato glorioso che, non solo a livello nazionale ma nella storia universale, ha rivestito Haiti per quanto riguarda i movimenti per l’abolizione della schiavitù, della proclamazione di indipendenza e per il contributo dato ai moti rivoluzionari nella storia dell’America Latina.
E’ una fierezza che, in un mondo tutto sommato ostile, rivendica di avere costruito una nazione a partire della schiavitù.
Mentre oggi si potrebbe quasi pensare che gli haitiani subiscono, o comunque accettano fatalmente ciò che accade al Paese.
Per descrivere questo atteggiamento, alcuni parlano di resilienza degli haitiani. Un termine che io rifiuto, è una parola di origine inglese poi passata al francese... Io personalmente credo che, accanto a dei momenti di esplosione, ci sia tutta una capacità di incassare, incassare i colpi, fare fronte a una vita di volta in volta più difficile, sopravvivere comunque.
Credo che in questa sopravvivenza ci sia una ricerca del vivere, ed è la vita stessa che si ricerca e ch e da un momento all’altro può esplodere. Perché, con le disuguaglianze che esistono nel Paese, due mondi così diversi, come il mondo rurale e quello della città, in questo insieme di ricchi, poveri, neri, mulatti, c’è talmente tanta gente che ancora oggi –nel 2013- non ha accesso alla salute e all’educazione, che da un momento all’altro tutto questo può davvero esplodere. Perché siamo davvero tutti seduti sopra un vulcano.

QUAL È IL SUO IMPEGNO PER HAITI OGGI?
Oggi come sapete io lavoro nel Cresfed, in un settore in cui io credo molto, che è quello dell’educazione.
A questo livello, perciò, partecipo all’impegno del Cresfed e come docente partecipo all’attività universitaria. Tutto ciò che può essere fatto a livello educativo e formativo in questo Paese, credo che sia molto costruttivo e che, al contrario, non si possa avanzare di un passo se, nella costruzione di questo stato, non consideriamo l’educazione come pietra miliare.
Oggi è soprattutto questo il mio contributo anche se, ovviamente, a livello politico, pur non essendo più attiva come prima, continuiamo a seguire comunque l’attualità e ciò che succede.
Il mio sogno è che un giorno la gente di Haiti possa vivere in un Paese sovrano e sentirsi cittadina. Questo Paese non lascia indifferenti, non so perché... Sono passati appena due secoli dalla sua nascita, che nella storia del mondo non sono nulla, per cui la gente, consapevole della propria condizione tanto terribile, è comunque convinta che questa può cambiare.

martedì 26 marzo 2013

Guatemala: il mais protagonista della Settimana dell'Espressione

Nell’ambito della Settimana dell’Espressione che il Centro Monte Cristo dedica ogni anno alle arti, al teatro, alla musica, la poesia, lo sport e la scienza, ragazzi e maestri sono stati impegnati nell’organizzazione della Feria del Maíz, evento che ha visto la partecipazione di 14 scuole elementari coinvolte nel progetto Edad de Oro-Nutriendo con Amor.
Delegazioni di ogni scuola si sono presentate martedì mattina scorso per partecipare al concorso per il piatto più saporito, in cui a salire sul podio è stata la migliore presentazione e ricetta a base di mais, sia esso giallo, rosso, bianco o nero!
Una giuria formata da cuoche e cuochi esperti ha assaporato tra gli altri piatti anche atol, tostadas e tamalitos, le pietanze tipiche che sono andate per la maggiore, preparate dalle donne che durante l’ultimo anno sono state protagoniste dei corsi di cucina organizzati da Cemoc per migliorare la preparazione di pranzi e merende da servire nelle mense scolastiche.
Oltre a maestri, alunni e genitori, hanno presenziato all’evento i rappresentanti dei ministeri di Educazione e Salute.
La fiera è stata inserita intenzionalmente nel contesto artistico ricreativo della Settimana della Espressione con il proposito di rendere visibile a un maggior numero di persone l’importanza della valorizzazione del patrimonio culturale legato al mais, al suo valore simbolico come parte della tradizione del popolo maya e al ruolo fondamentale che ricopre nella dieta delle popolazioni sopratutto rurali del Guatemala.

Gaia Consadori
ProgettoMondo Mlal Guatemala

lunedì 25 marzo 2013

Caro figlio ti scrivo. Un diario da Haiti

Lucia è partita a fine gennaio per seguire da vicino i progressi dei nostri progetti ad Haiti. Suo figlio adolescente è rimasto a casa, in Italia, e il diario che segue è il regalo più grande che poteva scegliere di condividere con lui. Un modo sincero per tenerlo "agganciato" alla realtà di un popolo che vive ancora profondamente lo smarrimento e il dolore per il terremoto che il 12 gennaio 2010 ha messo in ginocchio uno dei Paesi più poveri del pianeta. Quello che segue è il suo racconto, con una carrellata di foto che lo accompagnano...




Ouanaminthe, 2 febbraio 2013
Ciao! Finalmente stasera ho una camera vera, tutta per me.
Ugualmente dal rubinetto non esce acqua e la doccia domattina sarà sempre fredda, ma già mi sento a mio agio in questo Paese del Centroamerica più africano dell'Africa nera. In fondo non sono passati nemmeno duecento anni da quando in quest’isola trovarono rifugio e scampo gli schiavi sfuggiti alle navi negriere…
Un territorio impervio per gente che non aveva più niente da perdere. Ancora oggi nella popolazione si riconoscono tratti somatici di tutti i Paesi africani. Non una razza dunque ma una colonia di schiavi. Schiavi ieri, e impertinenti e dispettosi oggi nei confronti di chiunque tenti di assoggettarli, dominarli, cambiarli, salvarli... Te lo dicono loro stessi con lo sguardo fiero, te lo confermano con il fisico della resistenza e della forza, qualità selezionate accuratamente dai negrieri di un tempo.
Oggi pomeriggio siamo arrivati a nordovest. A Ouanaminthe, 20 km da Cap Haitienne. Da qui si vede il mare, l'oceano atlantico.
Siamo in una frenetica cittadina di frontiera con la Dominicana. La vedo dalla finestra del mio bagno e domani la raggiungerò a piedi, attraversando il ponte che collega questi due paesi cosi diversi.
Qui, a differenza dell’altipiano centrale dell’Artibonite, la natura appare benigna. Rispetto alla polverosa Hinche, qui predominano i verdi, e l'aria azzurrina è quasi frizzante, quasi sentisse il mare, l'avventura, la libertà. Invece, fino a ieri, tutto mi appariva predestinato. Un'atmosfera al rallenty con, come protagonisti, un esercito di rassegnati.
Stasera ho anche mangiato senza il disgusto dei giorni scorsi. Un banale polletto in salsa ma che mi è sembrato una squisitezza dopo il capretto in umido dei giorni scorsi.
Giù ad Hinche la gente mangia per sopravvivere. Abbiamo fatto le riprese nel cortile di una famiglia a ora di pranzo: si cucinava e poi mangiavano 8 bambini dagli 0 agli 10 anni avventati su un paio di scodelle di riso. C’era un'atmosfera irreale di silenzio famelico. I bambini facevano a turno con un cucchiaio e soltanto alla fine si è avvicinato il più grandicello che ha raschiato la pentola. Nn avrà mangiato più di 2 cucchiate di riso. La scena che ho seguito con il cuore stretto per una lunga mezz’ora non aveva niente a che fare con un’occasione conviviale o con i rituali di altre latitudini, qui si trattava di una pura faccenda fisiologica e noi eravamo dei guardoni.
Più tardi, al mercato di Jakob, ho visto una donna comprare un quadratino di pane: lo ha accarezzato distratta e assaggiato, per poi riporlo in un pezzetto di carta e infilarlo rapida nella borsetta. Come se avesse comprato un chilo di filetto. Aveva uno sguardo dolce da mamma.
Ad Haiti non si muore di fame ma la relazione degli haitiani con il cibo ha più implicazioni. Ad esempio, per strada, nella spiccia richiesta di cibo –che gestualmente rappresentano a te straniera indicandosi ripetutamente la gola- sembrano associare in realtà un’idea generale di rivendicazione. Come ad accusarci: soltanto la fame vi smuove!
Gli haitiani sono generalmente belli. Sguardi dritti, intensi, che nell'obiettivo diventano tristi. Nn si mangia né bene né abbastanza. Semplicemente in tanti secoli di povertà, dominio, occupazione, non hanno costruito il vanto di una propria cucina.
Stanotte sono stata svegliata alle 4 da un canto da campi di cotone. Un coro a onde che ricordava davvero i tempi degli schiavi. E in effetti ho pensato che in meno di 200 anni sono vissute appena 4 generazioni, quindi i ricordi di quel tempo non sono estinti.
Qui sulla frontiera con la Dominicana l'aria che si respira è quella dell'emergenza, della sopravvivenza. Haitiani e domenicani vanno e vengono sul ponte carichi di ogni cosa. Trascinano o spingono pesantissimi carri di sacchi e caschi di banane, a ogni età portano altissime pile di cesti sulla testa, corrono con cariole riempite all’inverosimile cariche di gabbie, bidoni, mobili, sacchi, casse. Camminano veloce per farsi strada nella ressa , e potere fare più viaggi in un giorno, la frontiera chiude alle 5.
Ma l’itinerario del cibo ha una sola direzione: dalla Domenicana ad Haiti. Da Haiti non esce niente, se non loro stessi con le mani e altri contenitori vuoti.
Scappo.
Ti penso!
mami

4 febbraio 2013
Ciao Giulio, non so ancora se ti è arrivata la mia mail dell'altro giorno, perchè da allora internet non ha più funzionato e mentre scrivo non so ancora cosa sia partito e cosa sia arrivato.
Nel mentre noi abbiamo finito il lavoro da fare qui al nord e domani mattina torneremo a Hinche, nell'altipiano centrale per un altro giorno di riprese. Poi scenderemo fino a Léogane dove c'e' stato l’epicentro del terremoto di 3 anni fa e dove come ProgettoMondo Mlal stiamo ricostruendo 4 scuole comunitarie.
I trasferimenti sono però lunghi e faticosi. La strada è pazzesca, come fossimo sul crinale di un canyon, ci si mette ore e ore per fare anche pochi km. Quasi 4 ore per fare appena 80 chilometri, per la precisione!
Questo delle mancanze di strade è uno dei problemi gravi di Haiti. Perché, seppure la gente produce qualcosa da vendere non ha alcuna possibilità di spostarsi da nessuna parte per raggiungere un mercato e vendere le proprie cose.
A noi che -fortunati- viaggiamo su 2 macchine, ci chiedono continuamente passaggi. Negli orari di scuola si incontrano fiumane di ragazzini e bambini che si incamminano per sterratone infinite che almeno apparentemente portano nel nulla.
Così capisci come, anche agganciarsi per pochi isolati al cassone di un pick up in corsa, possa essere davvero di grande soddisfazione. L’alternativa infatti è camminare per lunghezze considerevoli solo per scambiare 4 parole con un vicino o per il puro desiderio di spostarsi dal proprio cortile e scoprire cosa succede appena un po’ più in là…
Lontananza e isolamento rendono davvero tutto più difficile!!
Ieri per esempio abbiamo intervistato una famiglia di contadini che grazie al nostro progetto di Sicurezza alimentare ora ha oggi bel campo coltivato di verdure. Peccato però che, solo per innaffiarlo, l’intera famiglia sia costretta farsi km e km con bidoni immensi sulla testa perché nella loro comunità non c'è una fonte d’acqua.
Sempre ieri abbiamo visitato un’altra comunità coinvolta nel progetto, e abbiamo filmato un gruppo di contadini che facendo musica con le canne di bambù, cantando, e ballando costruivano muretti di contenimento per non fare franare la montagna. Il disboscamento selvaggio e continuo ha reso i tanti pendii di questo Paese ammassi instabili di terra, frane in attesa della prima tempesta utile per rovinare a valle.
Abbiamo filmato come qui fanno il carbone. Forse te l’avevo già detto, ma qui ad Haiti sono rimasti alberi solo sul 2% del Paese, e proprio perché per cucinare, scaldare, e fare qualsiasi cosa che abbia bisogno del fuoco, serve la carbonella e quindi legna. E per fare legna sono costretti ad abbattere gli alberi a un ritmo pazzesco, molto superiore alla capacita di ricrescita delle piante. Senza una regola o un coordinamento, ovviamente. Ognuno per sé e Dio per tutti. E il risultato è terribile perché cosi le piante non fanno nemmeno in tempo a dare frutti, non c'e' ombra né riparo, e la terra pian piano frana, si erode e non la si può più coltivare!
Un'altra mancanza che a noi può sembrare stupida ma, quando manca, non lo è, è quella della luce! Alle 5 di pomeriggio qui diventa buio pesto e non si può fare più nulla: ti rintani nella tua casupoletta di assi di palma e aspetti paziente il nuovo giorno. Nn c'è televisione, gioco, giornalino che tengano: non vedi un cz!
Fa una certa impressione passare davanti a tutte queste casette immerse nel nero quando sai che, dentro, ci sono almeno 10 persone (gli haitiani hanno in media 8 figli) stretti in 10 mq a fare non si sa cosa...
Così quando, sempre nel buio, per strada ti appare un bimbetto fermo nel nulla, capisci che a volte anche il nulla buio può diventare una distrazione, un’opportunità al di fuori del tran tran consueto.
Forse riesco a spedirti questa mail.
Spero ti arrivi insieme a tutto il mio amore!
Sii bravo!
Mamma

Port au Prince, 7 febbraio 2013
Ciao Giulio! Siamo arrivati in capitale a Port au Prince. Tre ore di viaggio e altre 2 ore secche per attraversare solo la città. Qui è il caos più completo: quattro strade principali e migliaia di tap tap (piccoli autobus coloratissimi e bellissimi) che sfrecciano in tutte le direzioni, con il verde, il rosso e il giallo. La poca consuetudine con dei mezzi di trasporto propri fa sì che chiunque si trovi eccezionalmente al volante di un mezzo si goda serenamente la piena libertà di occupare lo spazio: autisti, utenti e passanti creano ingorghi eccezionali, apparentemente senza nemmeno rendersene conto. Si fermano al centro della strada e alzano il cofano per una controllatina al motore, si mettono di traverso per invertire direzione, avvicinare qualcuno che si ha a bordo alla propria destinazione. Ti superano a destra e a sinistra, indifferentemente, senza preavviso, e cosi l'incastro si ingrossa senza limiti e si rimane tutti imprigionati nella ferraglia come una moderna partita a Shangai.
Haiti sorge su tante collinette, cosi per attraversarla si sale e si scende continuamente. Anche se, ieri sera al nostro arrivo, era già buio pesto, si intravedevano bene i segni del post terremoto: schiere di piccole tende bianche si susseguono accrocchiate lungo i marciapiedi. Vi vivono ancora migliaia di haitiani. Nell’oscurità più completa, ovviamente.
Gli haitiani saranno come i gatti? Anche in una città affollata come Port au Prince (urbanizzata per 800 mila abitanti, ma ve ne vivono circa 4 mioni), un formicolio di gente si muove continuo nel buio pesto. Gente che va, che viene, che vende, che compra, che guarda. Il tutto nel buio. A giudicare dalla disinvoltura con cui si muovono... si direbbe che hanno il senso della vista molto sviluppato.
Per il nostro arrivo in capitale i colleghi Alessandro e Valentina ci hanno portato in un ristorante (Oloffson) molto glam, tutto in legno bianco, a più piani e a terrazze dalle balaustre ricamate. lo stile si chiama gingerbread e l’Oloffson è una delle costruzioni più antiche (1887) e fotografate di Pap (Port au Prince), ha resistito impavida al terremoto proprio in un quartiere dove sono venuti giù come carta alberghi ed edifici più moderni!!
L’Oloffson è molto fighetto, vi si esibisce la band più famosa dei Caraibi (Ram), e infatti è il punto di incontro di inglesi e americani, funzionari e factotum delle Nazioni Unite. Il che dopo tanti giorni di campagna estrema disturba un po’: spaparanzati sui divani a battere mail su argentee tastiere Mac, con i piedi alzati sui braccioli come davvero fossero i nuovi padroni dell'isola. Sotto l’Oloffson, a pochi passi da lì, cominciano le tende e il buio della miseria. La tua mamma per non farsi troppo commuovere s'è sparata subito un clubsandwich... Booono!
Per la sosta qui a Port au Prince dormiamo in un Bed and Breakfast caruccetto in zona residenziale, spartanissimo ma accogliente che, dopo lo shock del primo ostello, ci è sembrato il paradiso. In realtà, il proprietario Jean Michel è visibilmente alle prime esperienze nel campo dell’accoglienza e ha velleità pericolose… Ci racconta di avere appena ordinato un migliaio di coniglie per avviare un business parallelo e confida che il giardino di questa ex villetta unifamigliare, oggi gestito (non trasformato!) come nuovo Bed and Breakfast, possa addirittura ospitare un mercato di primizie ogni sabato.
Stamattina ci siamo svegliati come sempre alle 6 per un primo giro della città.
I nostri due cooperanti a Pap ci hanno molto raccomandato la sicurezza. Sta iniziando il carnevale e si temono disordini.
Se anche gli haitiani sembrano gente tranquilla cominciano -dicono- ad averne le tasche piene di noi. Di noi stranieri che giriamo con i fuoristrada fotografandoli dai finestrini come allo zoosafari... Portiamo soldi che non si sa dove finiscono. Occupiamo edifici chiusi all’esterno come bunker. Invadiamo i loro spazi per farli nostri e lasciamo tutto il resto fuori. Come era prima.
Perchè alla fine dei conti, qui, è come se il terremoto ci fosse stato pochi mesi fa e i calcinacci ti si ripropongono soltanto quando meno te li aspetti, un po’ più in là. Anche perché, al di là delle ordinanze, davvero non saprebbero dove smaltirli... Discariche e inceneritori non sono imprese da Sud del mondo. Le grandi metrature di plasticona bianca o azzurra con le griffe degli aiuti umanitari rimarranno dunque per secoli su questa povera terra!
In centro città abbiamo visitato un istituto tecnico superiore dove i ragazzi frequentano corsi teorici e pratici per diventare ingegneri civili, fabbri, falegnami. Ragazzi e ragazze molto motivati che provengono dalla provincia e che, grazie a una borsa di studio di qualche Ong, provano davvero a ribaltare il loro destino.
Tornando sulla piazza centrale in Champs Mars, dove un tempo, di fronte a un colossale schiavo in bronzo che tira per liberarsi dalle catene, sorgeva su modello della Casa Bianca il palazzo presidenziale (1918), se non fosse che con il terremoto del 2010 si è letteralmente afflosciato su se stesso come un’enorme meringa a tre cupole e sul prato verde ne sono rimaste oggi appena le briciole!!! Spaventoso.
Mentre eravamo li, davanti alle inferriate del palazzo nazionale, si è materializzato un corteo di protesta contro il governo dell’ex popstar Martelly: alcune centinaia di manifestanti che sfilavano con striscioni e slogan in creolo inframmezzati da canti e balli carnevaleschi. E così. qualunque fosse stata la causa dell’improvvisa rivolta popolare, i suoi portavoce non appaiono mai cosi temibili!!! Stasera ceniamo da Ale e Valentina. Ci faremo una pasta, tanto per cambiare un po' il menu, e poi a letto presto perche domani la sveglia è alle 5 per andare a Léogane, in tempo per filmare l'inizio delle lezioni nelle scuolette del post terremoto!!!
Amorino ti voglio molto bene e spero tu te la stia passando benone..
Se ti guardi Harold e Maude... ti sembrerò ancora più vicina :-)))
Bacio, bacio e ribacio
Maman

10 febbraio
Ciao amorigno,
Siamo rientrati stasera da Léogane e domani mattina alle 6 partiamo per Fonds Verettes, ultima tappa di questo viaggio attraverso Haiti e ultimo video.
Léogane è a una quarantina di chilometri a ovest di Pap, sulla litorale. E’ molto bella e verde: il classico paesaggio tropicale di bananeti, canna da zucchero e mais. In mezzo a tanto verde, sulla terra battuta, sorgono delle coloratissime case in legno, sempre con il loro portichetto, la fitta siepe di piante grasse e l'immancabile filo steso del bucato, con almeno una decina di mutandine da bambino: tanti sono i figli per famiglia da queste parti...
Ora la maggior parte di queste case è sventrata o pericolante. Qui infatti è stato l'epicentro del terremoto e, almeno per quanto riguarda le case private, dopo tre anni le macerie sono ancora tutte qui.
La differenza è che oggi ogni casa, o quel che ne resta, è segnata sull'uscio: una V verde indica che la struttura tiene ancora, mentre una croce rossa ti conferma che, tu famigliola haitiana povera, una casa non ce l'hai più'!!
Inutile dirti che, ugualmente, quasi tutte le case sono ancora abitate dai superstiti. E come potrebbero costruirsi un'altra casa altrimenti?
Ovviamente siamo stati in tutte le nostre 4 scuolette: in quelle crollate e anche in quelle che stiamo costruendo daccapo. Abbiamo intervistato gli insegnanti e i direttori, ripreso i bambini che facevano lezione, abbiamo ascoltato le mamme raccontare di quel terribile 12 gennaio e di dove si trovavano, loro e i loro bambini, quando improvvisa è arrivata la scossa e la distrazione. Testimonianze semplici e timidissime che però, al momento clou del racconto drammatico, si scaldavano e diventavano un gesticolare febbrile, uno sbattere d’occhi angosciante.
In ogni scuola si contano vittime tra bambini, insegnanti e genitori.
Ed ecco spiegato perché adesso sono tutti stretti attorno a questi lavori di costruzione”. Ogni membro della comunità fa molto più della sua parte, mettendo a disposizione terreni, competenze o lavorando materialmente. per superare l’incubo che è stato collettivo, per ridare la scuola ai propri figli e un futuro anche agli amici dei propri figli.
La società haitiana poggia –si può dire- sulla famiglia allargata. Il nucleo di affetti, relazioni e supporto, non è cioè quello stretto delle nostre regioni. Ogni bambino può contare su molti adulti, e prima di decretare che un bambino è rimasto orfano su questa terra… bisognerebbe conoscere a fondo l’intera comunità.
L'istruzione dei bambini è per gli haitiani è la cosa più importante e fanno sacrifici enormi per assicurarla. Qui la scuola comunque ha un costo perché il governo non la garantisce a molti. Non la consente a tutti.
Così, soprattutto nelle piccole comunità, i genitori si mettono insieme e pagano insegnanti e i libri. Ma costa sopratutto la divisa obbligatoria: ogni classe ha una divisa diversa di colori super sgargianti e modelli molto carini. Camicette a quadretti , magliette e, sopratutto, nastrini e fermagli stupendi per le acconciature delle bambine, e calzetti di pizzo inamidati che miracolosamente sopravvivono alla sporcizia e alla polvere di questi posti. Ed è incredibile come la comunità si impegni al massimo per fare studiare i bambini. Convinti come sono che soltanto cosi potranno avere un futuro diverso.
Un po’ come se i predicozzi che io e papi facciamo a te avessero qui la più completa ed entusiasta delle applicazioni! STUDIAAAAA.
Ti bacio
Mamma

Fonds Verrettes, 13 febbraio
Ciao piccolo, ancora pochi giorni e sarò di nuovo con te.
Da ieri siamo a Fonds Verettes! Mi spiace non essere riuscita a farti avere mie notizie nella serata di passaggio a Port au Prince, ma abbiamo avuto una serie di inconvenienti che hanno fatto saltare tutto. Innanzitutto quando siamo rientrati in albergo lo abbiamo trovato chiuso con i sigilli giudiziari perche la polizia aveva avviato un'inchiesta contro il gestore del Bed and Breakfast e, con il suo albergo aveva sequestrato anche le nostre valigie!!! Con dentro tutte le mie cose, compresa la carica e adattatore dell'iphone.
Così abbiamo dormito in un altro albergo con le sole cose (che camminavano d asole per le incrostazioni di polvere)! che avevamo addosso. Naturalmente non ho potuto non pensare a te e al tuo sconforto per la valigia rubata ad Atene…. Eh?
La partenza all’indomani era prevista per l'alba e cosi non sono riuscita più a comunicare.
Qui siamo davvero in un posto assurdo! Per arrivare in questa nuova zona di frontiera con la Dominicana, nel sudest del Paese, abbiamo guadato un torrente gonfio d'acqua e la macchina si è impiantata nel bel mezzo con l'acqua che arrivava alle portiere! la nostra cooperante Petra, però, è stata bravissima e con l’aiuto dei ragazzotti che seguivano con partecipazione il nostro passaggio dagli argini sassosi, siamo risaliti in questo remoto apice di valle.
Qui è bellissimo! Questa poverissima comunità sorge praticamente all’incrocio degli uragani, su un letto di un fiume in secca dai grandi sassi bianchi spazzato da inondazione dopo inondazione. Eppure gli abitanti di Fonds Verrettes resistono e sono fieri di rimanere a vivere qui. Lungi dal cogliere la rassegnazione o la preoccupazione registrata nelle altre tappe, nelle persone intervistate qui in questi giorni, abbiamo invece raccolto una determinazione “montanara” che lascia bene sperare per un futuro di Haiti. Piegati, se non dal terremoto, senz’altro da un alfabeto di uragani (sai che di volta in volta gli danno un nome di fantasia che inizia con una nuova lettera), dimostrano una schiettezza di vita e di appartenenza che rivedi nelle caprette che popolano ostinate questi sassi.
Da Fonds Verrettes si sale fino a 900 metri, fino in un bosco di pini in cui qualche improvvisato imprenditore ha scommesso di portare il turismo. In mezzo agli alberi, irreale dopo decine di improbabili chalet alla Yellowstone, ti si compone sotto gli occhi un mercato bellissimo, dai colori e i visi medievali, pieno di animali, carri e portatori di sacchi, in tutte le sfumature del marrone. La Domenicana è a pochi passi, la maggior parte già parla in spagnolo. Camion stracarichi vengono e vanno. E’ tardi ed è ora di sbaraccare. Tra i pini si iniziano a disperdersi asini, cavalli e venditori a piedi. Cala la sera e l’aria di frontiera si fa frizzante.
Buona notte!
Mami

ProgettoMondo Mlal per Haiti

Sostegno a una produzione agricola sostenibile per contribuire alla sicurezza alimentare delle comunità rurali, promozione di nuove fonti di energia sostenibile in alternativa al disboscamento selvaggio e conseguente erosione e impoverimento della terra coltivabile, contenimento e prevenzione dei maggiori rischi ambientali, causati dai frequenti uragani e inondazioni, per un più corretto e sostenibile sviluppo del territorio.
Sono questi i principali ambiti su cui ProgettoMondo Mlal fonda da più di 15 anni il proprio impegno ad Haiti.
Sorpresa dal terremoto del 12 gennaio 2010 mentre portava a compimento un Progetto di sviluppo proprio nell’area epicentro del sisma, a Léogane, è da Leogane -e non poteva essere altrimenti- che l’Ong ProgettoMondo Mlal ha raccolto la nuova sfida della ricostruzione. Qui dove il 90% delle scuole è andato distrutto, dove ogni comunità scolastica piange delle vittime tra scolari e insegnanti, sta dunque ricostruendo in partenariato con le istituzioni locali e in stretta collaborazione con le comunità, 3 scuole comunitarie per restituire un futuro alla popolazione vittima del terremoto. Parallelamente a questo intervento di emergenza post-terremoto, alla realizzazione del quale partecipano anche Caritas Italia, Regione Valle d’Aosta, Provincia autonoma di Trento, i Comuni di Genova e Ivrea, Spi Cgil e le associazioni Emmaus Italia e Apibimi di Trento, l’Ong veronese sta lavorando in altre 3 aree particolarmente vulnerabili del Paese con altrettanti progetti di sviluppo cofinanziati dall’Unione Europea.
Nel centro e nordest di Haiti è in pieno svolgimento un Progetto di sicurezza alimentare (Piatto di sicurezza) al fianco delle associazioni di agricoltori che vuole ridurre la dipendenza delle comunità locali dagli aiuti esteri promuovendo un’agricoltura sostenibile di tipo famigliare e un’organizzazione collettiva del lavoro di trasformazione e vendita dei prodotti.
A Hinche, nell’altipiano di Artibonite, nel centro di Haiti, l’equipe di ProgettoMondo Mlal collabora con il Movimento nazionale dei contadini (MPP) nella realizzazione del Progetto Nuove Energie per combattere erosione dei suoli, deforestazione e dipendenza dalla legna dei suoi abitanti e ristabilire invece un habitat sostenibile e amico dell’uomo, così da garantire un corretto e indispensabile approvvigionamento delle risorse accanto però a una seria e lungimirante tutela dell’ambiente.
Infine un’altra equipe di ProgettoMondo Mlal sta collaborando a Fonds Verrettes, sul confine sud est di Haiti, a fianco della storica Ong haitiana Cresfed, alla ricostruzione di un territorio socialmente e ambientalmente impoverito dai continui fenomeni climatici avversi, come i cicloni che qui trovano un naturale corridoio di passaggio, e dalla prossimità della frontiera con la Dominicana che assorbe risorse umane e produttive in cambio di sfruttamento e negazione dei più elementari diritti sociali. Il progetto Viva Haiti scommette in questo caso su un Piano di sviluppo locale che vede quale protagonista attiva la popolazione stessa.

Per contribuire anche concretamente alla realizzazione di questi progetti, è possibile donare sul conto di Banca Popolare Etica, Iban IT 07 J 05018 12101 000000 511320, intestato a ProgettoMondo Mlal Onlus – causale “per Haiti”
info: sostegno@mlal.orgwww.progettomondomlal.org – tel 045.8102105

martedì 19 marzo 2013

Teramo chiama Africa

Si è concluso a Teramo il primo corso di formazione per insegnanti ed educatori coinvolti nel progetto europeo “We are the planet”.
Finalità di questo progetto guidato dalla Provincia di Teramo con la collaborazione di ProgettoMondo Mlal è inserire prepotentemente anche nei programmi scolastici e nelle attività dei centri di aggregazione giovanile i temi del 7° Obiettivo del Millennio. Nei bambini e negli adolescenti si vuole dunque creare consapevolezza su diritto universale all’acqua, protezione della biodiversità, economia sostenibile, lotta alla povertà estrema, anche utilizzando forme di “arte sociale”.
Per il progetto, che coinvolge partner italiani, spagnoli, sloveni e ciprioti, la Ong ProgettoMondo Mlal ha elaborato il manuale didattico (www.wearetheplanet.net “area teacher”), ideato e coordinato il percorso di formazione per insegnanti ed educatori. Inoltre due operatrici, Roberta Morosillo e Giulia Lonardi, hanno supportato le insegnanti nell’avvio dei laboratori didattici con i loro alunni. Molti gli istituti di Teramo coinvolti, dalle scuole dell’infanzia alle superiori, passando per le primarie e le medie, in particolare i laboratori didattici hanno interessato 500 alunni di IP Agrario “Di Poppa - Rozzi”, le scuole Risorgimento e San Berardo, più gli istituti comprensivi Campli, Savini e Bellante.
La lezione conclusiva del 15 marzo ha registrato unanime soddisfazione per il lavoro svolto con insegnanti e alunni. Lavoro che, tra l’altro, ha portato alla creazione di un’ampia gamma di oggetti, album fotografici e video. Parte di questi oggetti verranno adesso inviati alle scuole gemellate che Progetto Mondo Mlal ha individuato in Burkina Faso e in Benin, parte saranno esposti nel futuro “Museo della sostenibilità ambientale”, parte infine saranno proposti in piccoli eventi organizzati dalle stesse scuole per raccogliere fondi destinati a realizzare 4 microprogetti di sviluppo: 2 da realizzare nelle scuole dei villaggi di Boromo e Tanghin in Burkina Faso e altri 2 coinvolgeranno le scuole dei villaggi Sepounga e Tchanwassaga in Benin.



obiettivo LEGGERE E IMPARARE

La scuola Boromo “E” é situata nell’omonimo villaggio rurale, a 180 km dalla capitale Ouagadougou, nella regione Ovest del Burkina Faso. Si tratta di una scuola pubblica costruita nel 2007 a nord della strada nazionale N°1 che collega Ouagadougou a Bobo Dioulasso. Questa scuola è frequentata da 466 alunni: 224 ragazze e 242 ragazzi divisi in 6 classi e con 12 insegnanti: 9 donne e 3 uomini. In questa scuola studiare e apprendere non è così semplice. Il materiale didattico a disposizione è carente: mancano quaderni, penne, matite, colori, cartine geografiche, computer, stampanti… Mancano i libri per innamorarsi della lettura. Con “We Are The Planet!” e l’iniziativa “Leggere e imparare” vogliamo appunto garantire agli studenti nuove possibilità di apprendimento e una migliore qualità dell’insegnamento grazie a materiali e risorse fino ad oggi non disponibili. Ai più grandi e a meritevoli faremo poi un regalo speciale: un abbonamento al Centro di lettura di Boromo. In questo modo 176 ragazzi e ragazze potranno così, grazie al nostro aiuto, scoprire la bellezza dei libri, ampliare i propri orizzonti di conoscenza e occupare al meglio il tempo libero. Il Centro di lettura di Boromo offrirà inoltre ai giovani uno spazio adeguato per il dopo scuola dove poter fare i compiti e preparare gli esami.

obiettivo L’ACQUA IN CLASSE!

La scuola di Tanghin è una scuola pubblica istituita nel 1985 ed è situata tra il villaggio di Tanghin e il villaggio di Goghin nel comune rurale di Tanghin Dassouri, a 30 km da Ouagadougou nella provincia di Kadiogo, regione del Centro del Burkina Faso. La particolarità di questa scuola è che accoglie bambine e bambini non udenti. Le classi sono miste e le lezioni sono tenute in due lingue, quella parlata correntemente dalla popolazione locale e il linguaggio dei segni. Una scuola all’avanguardia in Burkina Faso, dunque, che sperimenta un approccio di integrazione e propone lo stesso percorso educativo per gli alunni udenti e non. Nella scuola di Tanghin non c’è acqua corrente. Gli insegnanti e gli alunni percorrono ogni giorno lunghe distanze per raccogliere l’acqua che serve nell’attività scolastica e per gli altri usi giornalieri. Il progetto We Are the Planet! intende allora dotare la scuola di una fontanella di acqua potabile collegata all’infrastruttura idrica del villaggio. Avere a disposizione acqua corrente potabile all’interno della scuola permetterà di migliorare le condizioni igienico-sanitarie di 285 alunni e di tutto il personale scolastico; migliorare la salute degli studenti, degli insegnanti e delle loro famiglie; evitare lunghe distanze per rifornirsi d’acqua e dedicare il tempo risparmiato allo studio. La scuola conta ad oggi 285 alunni di cui 117 ragazze e 168 ragazzi; dispone di 6 classi e di un corpo docente composto da 6 insegnanti, 2 donne e 4 uomini.

obiettivo SPORT PER CRESCERE 

La scuola di Sepounga è una scuola pubblica creata nel 2002 ed è situata nel villaggio di Sepounga nel comune di Tanguieta. Nel villaggio di Sepounga vivono 800 persone delle principali etnie (Bourba, Biali, Otamari, Peulh, N’berme). La scuola di Sepounga conta oggi 284 alunni: 111 ragazze e 173 ragazzi. Gli insegnanti che vi lavorano sono 7 e ci sono 6 classi a diposizione. L’attività fisica e lo sport garantiscono lo sviluppo sano ed equilibrato dei giovani. Attraverso l’allenamento e il gioco è possibile condividere le regole del vivere insieme, rafforzare lo spirito di solidarietà, apprendere l’importanza della costanza e della perseveranza e favorire la creatività e la maturazione del talento. Ecco perché l’educazione sportiva fa parte dei programmi scolastici in Europa, così come in Benin. Eppure la scuola di Sepounga non dispone di risorse sufficienti per allestire aree di gioco né per acquistare attrezzature sportive per i propri studenti. Con We Are The Planet! inaugureremo all’interno del perimetro scolastico un campo da calcio ed uno di pallamano e forniremo attrezzature ed abbigliamento sportivo ai giovani studenti.

obiettivo SEGGIOLE&BANCHI
La scuola di Tchanwassaga é una scuola pubblica creata nel 1987 nel villaggio di Tchanwassaga nel comune di Tanongou. Nel villaggio di Tanongou vivono 500 persone che appartengono alle etnie Waama e Gourmantche. La scuola conta 206 alunni: 106 ragazze e 100 ragazzi. Gli insegnanti che vi lavorano sono 4 e ci sono 3 classi a diposizione. Le condizioni di insegnamento e studio nella scuola pubblica del villaggio di Tchanwassaga sono precarie: 3 bambini dividono un piccolo banco riuscendo, così, con grande difficoltà a leggere e a scrivere. E la situazione peggiorerà con il nuovo anno scolastico quando 40 nuovi allievi si iscriveranno a scuola. Per questo motivo con We Are The Planet! vogliamo contribuire a rendere la scuola più accogliente per alunni e insegnanti, migliorando la qualità dell’insegnamento e il rendimento dei giovani scolari. Grazie al progetto lo faremo acquistando nuovi banchi e sedie. Un piccolo e semplice gesto che nasconde però un grande valore!

Per contribuire al progetto We are the planet con una donazione: Banca Popolare Etica iban IT 07 J 05018 12101 000000511320
Ulteriori informazioni: sostegno@mlal.org

lunedì 18 marzo 2013

Papa Francesco visto da Sud

Nuove voci si aggiungono alle molte che hanno dato in questi giorni la loro opinione sul nuovo eletto Papa Francesco. In questo caso si tratta di voci che arrivano da rappresentanti illustri e autorevoli della Chiesa latinoamericana, e in particolare di quella parte militante e impegnata da sempre nella difesa dei deboli, degli emarginati e dei loro diritti.
Eduardo Rojas Zepeda, ex segretario esecutivo della Vicaria della Pastorale Sociale di Santiago del Cile, attualmente consulente per i diritti umani della Conferenza Episcopale Latinoamericana, e Monsignor Alfonso Baeza Donoso, ex Vicario della Pastorale Sociale e presidente onorario di Caritas Santiago, sono persone che Progettomondo Mlal conosce molto da vicino, essendo stati per molti anni interlocutori per numerosi progetti realizzati insieme.
Hanno diretto insieme, sin dai difficili anni di Pinochet, e poi per molto tempo dopo il ritorno alla democrazia, una delle istituzioni simbolo della resistenza alla barbarie della dittatura cilena e della difesa strenua dei diritti umani di tanti cittadini perseguitati, la Vicaria della Solidarietà appunto, trasformata poi in Vicaria della Pastorale Sociale.
A Eduardo e padre Alfonso è andato perciò naturale il nostro pensiero all’elezione del Cardinal Bergoglio a Papa. Data la loro esperienza e storia personale, avere anche la loro opinione era per noi interessante.
“Siamo rimasti tutti molto ben impressionati dai suoi primi gesti e dichiarazioni, davvero di speranza”, dice Eduardo.
Anche se né padre Alfonso né Eduardo ci hanno mai lavorato insieme, hanno entrambi buone referenze di Papa Francesco. Al tempo della Vicaria della Solidarietà non mancarono –è vero- le accuse di complicità e connivenza di vari vescovi e preti con la dittatura argentina, ma nessuna contro il Cardinal Bergoglio.
<![endif]-->Come ha sottolineato anche il premio Nobel per la pace Aldolfo Perez – Esquivel, in generale durante la dittatura la Chiesa argentina ha commesso un peccato di omissione, e questa è sicuramente una colpa che pesa sull’istituzione e che molti nel Paese non hanno perdonato.
“Ma è vero anche in Argentina – spiega ancora Eduardo – non c’è mai nemmeno stata una struttura come la Vicaria della Solidarietà, o un’iniziativa per difendere i diritti dei perseguitati coordinata dalla Conferenza Episcopale, e nemmeno un Cardinale come Raul Silva Enriquez” (fondatore della Vicaria della Solidarietà e nemico dichiarato di Pinochet).
Ma queste azioni non nascono dal niente: in Cile la Chiesa cilena ha promosso la riforma agraria, e già dagli anni ’50 aveva prodotto documenti firmati da tutti i vescovi sulle tematiche della giustizia sociale, cosa che non era avvenuta in Argentina, dove, mancando l’esperienza di una collaborazione sul piano politico e sociale, non è mai stata nemmeno data l’occasione per una rapida e costruttiva reazione alla tragedia della dittatura. C’è stato invero lo spazio per azioni individuali, come quelle attribuite al Cardinal Bergoglio, per salvare persone singole, aiutandole a nascondersi o a uscire dal Paese, ma non interventi a forte impatto politico.
Le ombre di un passato così tragico, e non ancora risolto, non possono ovviamente essere ignorate. Ogni latinoamericano che abbia svolto un ruolo pubblico durante quegli anni ne porta infatti traccia su di sé e deve, in qualche modo, renderne conto.
Ciò nonostante - ci dicono i nostri autorevoli amici cileni - l’elezione di Papa Francesco è comunque un evento che dà speranza anche ai migliori protagonisti della Chiesa e della società latinoamericana, che seppure non dimenticano il passato sono consapevoli di avere a che fare con un cambiamento di portata storica. Ecco perché tutti in Sudamerica si augurano che, ben alimentate dai primi passi compiuti dal nuovo Papa, queste aspettative non vengano deluse.

Francesco Pulejo
ex cooperante ProgettoMondo Mlal Cile

venerdì 15 marzo 2013

Primo Francesco, primo latinoamericano, primo gesuita: segni dei tempi anche per la Chiesa cattolica


Lima, 14 marzo 2013 - di Mario Mancini, ProgettoMondo Mlal. Primo Francesco, primo latinoamericano, primo gesuita. E per di più con un solo polmone, l’altro asportato in gioventù per un problema respiratorio, figlio di genitori italiani astigiani EMIGRANTI (immaginate un giorno un Papa Perez italiano figlio di ecuadoregni, ma anche se fosse solo un Rodriguez sindaco di Busto Arsizio) in Argentina, e tifoso della squadra del San Lorenzo de Almagro, i “cuervos” , tra i 5 club “grandi” dell’Argentina, e quindi considerato “santo” dalla culla.
In questi primi giorni di elezione, pullulano sul web biografie e tutte coincidono su molti aspetti: grande austerità, semplicità e rifiuto di qualsiasi forma di lusso, vicinanza con gli ultimi, profonda esperienza pastorale; ma anche conservatore con i progressisti – freddezza per la Teologia della liberazione, radicale opposizione alle coppie gay-, e progressista con i conservatori – ultima omelia contro l’ipocrisia dei sacerdoti che non battezzano i figli avuto fuori dal matrimonio, come “gli ipocriti di oggi, quelli che clericalizzano la Chiesa, quelli che allontanano il popolo di Dio dalla salvezza”.  
E un grande punto interrogativo mai pienamente risolto: il suo comportamento durante la dittatura militare (1976-1983), quando era provinciale della Compagnia di Gesú (1973-1979).
Sul quotidiano argentino, progressista “Pagina 12” ci sono alcuni articoli interessanti, soprattutto uno di Horacio Verbitsky che lo definisce un “ersatz”, che in tedesco vuol dire qualcosa di qualità inferiore, un succedaneo. Questo giornalista di investigazione ha scritto vari libri sui rapporti tra Chiesa Cattolica e dittatura militare, tra cui L' isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, in cui cita il caso di due gesuiti rapiti e torturati dai militari e poi rilasciati che, secondo le accuse, furono “consegnati” da Bergoglio: un’accusa da lui sempre respinta avendo sostenuto, al contrario, di essersi impegnato addirittura con Videla e Massera per la loro liberazione.
Un altro articolo, sempre apparso su Pagina12, riporta i commenti dei principali esponenti di organismi di diritti umani e dell’associazione “Hijos” (Hijos por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio), costituita dai cosiddetti “appropriati” durante la dittatura, cioè dai bambini figli di detenute torturate e scomparse che venivano assegnati a famiglie di militari - crudele e criminale adozione (consiglio a questo proposito l’ottimo film “La historia oficial” del 1985), che ritengono Bergoglio, se non propriamente un collaboratore, uno che non ha mai sufficientemente condannato i “genocidi”. Certo, si tratta di un punto forte, ma nemmeno Verbitzky considera Bergoglio un collaborazionista.
Bergoglio in questi anni è stato pure un forte fustigatore del kirchnerismo - soprattutto per l’idea antagonista della politica che ha caratterizzato i governi di Nestor e Cristina, seppure convidesse l’anima sociale delle loro politiche, ma ha sempre avuto una grande autorità morale data dalla sua sincera e quotidiana vicinanza con i più poveri.
Ciò nonostante Francesco è un segnale davvero forte in questo momento. In un’Italia sconvolta dallo Tsunami del M5s - che non è che una rivolta morale contro la cattiva politica e gli abusi dei potenti ai danni dei semplici cittadini- dove, nella più acuta crisi economica dell’ultimo secolo, i pregiudicati sono stati i precari della storia, l’elezione di un Papa austero (la sobrietà è di moda) rappresenta una rivoluzione.
Una rivoluzione nella forma e nel contenuto. Sicuramente sincero, perché cosí è sempre stato il suo comportamento nei panni di un “normale” arcivescovo di Buenos Aires (tra le diocesi più popolose del mondo), vive in un piccolo appartamento, non ha autisti né segretarie, usa bus o metropolitana, predica nelle “villas” di Buenos Aires, restio a usare paramenti cardinalizi o manifestazioni esteriori di potere, non frequenta ristoranti, si cucina da solo.
Una persona “normale”, come è del resto composta la stragrande maggioranza dell’umanità.
E in questa Chiesa, un Conclave cardinalizio che nomina un argentino, gesuita, umile e anticuriale, che accettando la sfida decide di chiamarsi FRANCESCO -gigante della Chiesa- dovrà attendersi riforme o passi radicali verso una Chiesa “povera di spirito”, che apre le porte della “Salvezza” come ha detto l’Arc. Bergoglio, che proprio come Francesco ha dato un’indulgenza generale alla prima apparizione, per dire “vi, e ci, sono rimessi tutti i peccati”.
Ricordiamo poi che il Cardinale Bergoglio era stato il secondo più votato nel Conclave del 2005, rappresentando, e facendo convergere quei voti di un altro gigante –Martini- che nelle prime votazioni aveva rappresentato il gruppo “non conservatore”. Quindi, un voto ritardato, una vittoria della minoranza del 2005, un’elezione rotativa tra i due gruppi...non si sa: sicuramente un voto distante dalla Curia di Roma, di profonda rottura con i segretismi, gli scandali, le contraddizioni di un potere secolare che rappresenta forse l’ombra più cupa della Chiesa attuale.
Molti pontefici dal momento dell’assunzione al trono di Pietro ricevono un sussulto, una liberazione dai fardelli della vita precedente, ricevono un coraggio inusitato a loro stessi per farsi artefici di profondi cambiamenti. Questo ci si attende da un pre-destinato (anche se tutti i “papi” lo sono ecclesiologicamente), da un Francesco.
Un Papa pastore come tanti, pellegrino come tutti i cattolici, vuole essere il simbolo di questa rivoluzione, sperando che non sia solo nella forma, sebbene importantissima (croce di ferro invece che d’oro, auto normale), ma anche nel contenuto. E chissà se un giorno ce lo ritroveremo, sui passi del cardinale Melville, nel geniale Habemus Papam di Moretti, in metropolitana sulla Linea A, o addirittura in curva Sud di un’improbabile Roma-San Lorenzo.
Bergoglio ha accettato la sfida e l’ha aperta senza lasciare nessun dubbio su come vuole la sua Chiesa: povera, quaresimale, pasquale e missionaria.